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Mostra del Cinema di Venezia 2022 – Venezia 79 Barbera, la Cura Ludovico e i Leoni americani

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Mostra del Cinema di Venezia 2022 – Venezia 79 Barbera, la Cura Ludovico e i Leoni americani

di Filippo Zoratti

 

Ragioniamo a voce alta: la Mostra del Cinema di Venezia è arrivata alla sua 79a edizione, anche se sulle locandine e sul programma campeggia anche un bel “90°”. I 90 anni sono quelli della Biennale, e difatti il primissimo festival risale al 1932 (ancora non competitivo in quanto senza giuria, e svoltosi interamente sulla terrazza dell’Hotel Excelsior di Venezia Lido). Alcune annate, poi, si sono perse nel tempo, con una manciata di sospensioni dettate dalla guerra, dall’economia e anche da decisioni di natura politica. 79 concorsi ufficiali, quindi. Dal 1946 al 2004 (58 anni) gli Stati Uniti hanno vinto solo 4 volte, due delle quali con registi francesi – Jean Renoir e Louis Malle – che avevano semplicemente prodotto i loro film negli States. Poi il vento è cambiato: dal 2005 al 2022 (17 anni) le opere americane hanno trionfato per ben 8 volte. Una statistica interessante, utile per un paio di riflessioni: quello della Mostra, fino ad un certo punto della sua vita, è stato un lavoro di ricerca e di continua scoperta; scoperta di nuove cinematografie, di nuovi percorsi internazionali, verso l’India e la Cecoslovacchia, l’Unione Sovietica e il Giappone. Gli Usa potevano stare tranquillamente a guardare, già ampiamente rappresentati naturalmente dagli Oscar. La contrapposizione era piuttosto marcata: da una parte, l’Academy e il suo gigantismo, con l’autopromozione dell’industria pop; dall’altra, una manifestazione essenzialmente d’essai, volta al cinema del futuro (cinema spesso anche invisibile, e quindi meritevole di maggiore attenzione).

 

Il punto di rottura è arrivato probabilmente con “The Wrestler”, nel 2008: quella che fino a pochi anni prima sarebbe stata salutata come una scelta persino “esotica”, buona per una campagna promozionale ad ampio raggio, vince invece clamorosamente il Leone d’Oro. La Mostra cambia ufficialmente sembianze, più o meno in corrispondenza del secondo mandato di Alberto Barbera, chiamato in modo abbastanza palese a ridare lustro e importanza ad una kermesse divenuta troppo “cinefila” (sembra un controsenso, non lo è) a causa delle scelte dell’amato/odiato predecessore Marco Müller. Il festival diventa così un incubatore di successi preannunciati: “La forma dell’acqua” (2017), “Joker” (2019), “Nomadland” (2020) sbancano Venezia e sono venezia-2022-02anche i titoli di punta dei successivi Oscar. Anche quest’anno ha vinto un titolo a stelle e strisce, premiato da una giuria capitanata da un’attrice statunitense: nei febbrili giorni festivalieri si vociferava di una Julianne Moore in lacrime, al termine della proiezione di “All the Beauty and the Bloodshed” di Laura Poitras. Nessuno ci aveva voluto credere, e il borsino dei favoriti dava piuttosto tra i papabili “Gli orsi non esistono” di Panahi (poi Premio Speciale), “Saint-Omer” di Alice Diop (poi Gran Premio), “The Whale” di Aronofsky (rimasto abbastanza a sorpresa a mani vuote). Nessuno, ma proprio nessuno, avrebbe puntato sulla storia della fotografa Nan Goldin, per quel malcelato snobismo generalizzato che declassa i documentari alla stregua di genere minore. Un po’ come accaduto nel 2013 con “Sacro GRA” di Gianfranco Rosi.

 

E invece il verdetto è sensato, del tutto condivisibile. E si rivela soprattutto contemporaneo e figlio del suo (del nostro) tempo. La Mostra del Cinema di Venezia, anche quest’anno – e in modo forse più sottile rispetto alle ultime edizioni – ha dimostrato di essere perfettamente al passo, sicuramente meglio di Berlino e Cannes. Sembra di assistere però a campionati differenti, perché ad esempio gli Orsi berlinesi continuano ad essere espressione di indagine, studio, lontano anni luce da qualunque tipo di mainstream. Ma, d’altro canto, il mainstream non va demonizzato. Andrebbe piuttosto gestito, calibrato, mescolato con altre urgenze e suggestioni. Un’accortezza che la Biennale sembra aver smarrito, o alla quale sembra comunque prestare via via sempre meno attenzione. Per dirla con Pier Maria Bocchi: «Barbera è ormai seduto in una gestazione che non è più di ricerca ma venezia-2022-03semplicemente di accettazione e consolidamento. Le sue Mostre rinforzano i matrimoni con i poteri forti, non perlustrano (più). Sostengono lo status quo, non frugano e non perquisiscono» (Cineforum.it, 13 settembre 2022). Se è vero che il festival aveva bisogno di una robusta “Cura Ludovico” per riguadagnare l’attenzione mediatica perduta, ora – a distanza di 10 anni dal restyling – inizia ad intravedersi la fine di un percorso. O, meglio, la necessità di cambiare nuovamente i propri connotati. Pena la spersonalizzazione, la perdita di identità. O peggio ancora il totale asservimento ad un’offerta convenzionale e omologata, tanto utile in termini di visibilità (ma fino a quando?) quanto rovinosa da un punto di vista artistico.

 

Tutti i premi di Venezia 79

–        LEONE D’ORO per il miglior film a “All the Beauty and the Bloodshed” di Laura Poitras

–        GRAN PREMIO DELLA GIURIA a “Saint-Omer” di Alice Diop

–        LEONE D’ARGENTO per la miglior regia a “Bones and All” di Luca Guadagnino

–        PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA a “Gli orsi non esistono” di Jafar Panahi

–        COPPA VOLPI per l’interpretazione femminile a Cate Blanchett (“Tár”)

–        COPPA VOLPI per l’interpretazione maschile a Colin Farrell (“Gli spiriti dell’isola”)

–        OSELLA per la migliore sceneggiatura a Martin McDonagh (“Gli spiriti dell’isola”)

–        LEONE DEL FUTURO – MIGLIOR OPERA PRIMA a “Saint-Omer” di Alice Diop

–        PREMIO ORIZZONTI per il miglior film: “World War III” di Houman Seyyedi

–        PREMIO SETTIMANA DELLA CRITICA a “Eismayer” di David Wagner

–        PREMIO GIORNATE DEGLI AUTORI a “Lobo e Cão” di Cláudia Varejão

 

Filippo Zoratti

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Mostra del Cinema di Venezia 2020 – Venezia 77 La ripartenza è un atto di fede

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Mostra del Cinema di Venezia 2020 – Venezia 77
La ripartenza è un atto di fede

di Filippo Zoratti

Dice bene il neo-presidente della Fondazione Biennale di Venezia, Roberto Cicutto, quando afferma che la Mostra 2020 è stata «Un atto di fede». Venezia 77 ha dimostrato che si può vivere il cinema rispettando delle regole, forse scomode, ma necessarie. I 9 punti di accesso, i termoscanner, l’obbligo di mascherina e gli ingressi contingentati (e solo su prenotazione, elemento che ha permesso di eliminare praticamente in toto le code) sono stati i dazi da pagare per entrare nella cittadella del cinema al Lido e abbandonarsi alle immagini in movimento e ai rituali commenti post-proiezione, abbozzando qua e là – tra addetti ai lavori, giornalisti e semplici appassionati – il classico toto-Leoni.

E fin dalla prima proiezione stampa è apparso subito chiaro ai più come “Nomadland” di Chloé Zhao (già regista dell’apprezzato “The Rider – Il sogno di un cowboy”) avesse la giusta marcia in più per avere la meglio sui restanti 17 titoli del concorso. Non tanto per la bellezza in sé di soggetto, sceneggiatura e realizzazione, quanto per una serie di caratteristiche extra-filmiche che sembrano diventate negli ultimi anni principi fondanti da seguire. Il Leone d’Oro, anzitutto, sembra debba per forza essere un’opera non “divisiva”; ovvero quella che mette d’accordo più persone possibili, quella meno scomoda e che strizza l’occhio alla grande distribuzione e, possibilimente, agli Academy Awards.

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Il compito dei festival, tra nomadi e spie

L’ultimo lustro parla chiaro: dopo l’irricevibile Lav Diaz del 2016 (vincitore con “The Woman Who Left”), sul gradino più alto sono finiti “Roma” di Cuarón, “La forma dell’acqua” di del Toro, “Joker” di Todd Phillips. Tutte pellicole poi – chi più, chi meno – oscarizzate, così come sembra ora spianata la via a “Nomadland”, in virtù della sua protagonista Frances McDormand, del suo argomento di stringente attualità (si narra di una donna che ha perso marito e lavoro durante la Grande Recessione economica del 2008, e che decide di vivere come una nomade moderna al di fuori delle convenzioni sociali), e della sua regia d’autore. Non a caso Hollywood ha già puntato gli occhi su Chloé Zhao, ben prima della Mostra: sarà lei a dirigere uno dei prossimi film Marvel, “The Eternals”, previsto per il 2021.

Si apre dunque la solita voragine “morale”: ma il compito dei festival, esattamente, qual è? Impalmare l’ovvio o andare a caccia del nuovo, scommettendo sui talenti del futuro? Venezia 77 ci racconta una storia fatta principalmente – si perdoni il termine non propriamente elegante – di “cerchiobottismo”: dopo anni di appannamento mediatico la soluzione è parsa quella di un ripiegamento verso il cinema pop, una sorta di “operazione simpatia” (altra espressione orrenda) per riavvicinarsi al grande pubblico. Tutto ciò cercando anche, laddove possibile, di consacrare per primi nomi mai altrove premiati (Kim Ki-duk e “Pietà” nel 2012, Konchalovsky e “Le notti bianche del postino” nel 2014, Kiyoshi Kurosawa e “Wife of a Spy” Leone d’Argento in questa edizione), stabilendo un’ideale “diritto di prelazione”.

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La nuova identità del cinema

Va altresì considerato come il compito della giuria, quest’anno, fosse quanto mai delicato e spinoso. All’inizio del festival, la presidentessa di giuria Cate Blanchett si era espressa in un perentorio «Dobbiamo essere coraggiosi!». E proprio quello del coraggio sembra essere un tema che continuerà ad essere centrale anche nel prossimo futuro, di qualunque evento culturale si tratti e a qualunque latitudine. Sembrano passati anni, e invece si tratta di una manciata di mesi: a febbraio Berlino aveva scampato di poco il lockdown, riuscendo a chiudere i battenti il 1° marzo con l’Orso d’Oro all’iraniano “There Is No Evil”; a maggio Cannes si era dovuta arrendere all’evidenza, annullando l’evento per la prima volta dal 1950 e annunciando lo stesso una selezione ufficiale non competitiva i cui film hanno ricevuto comunque il marchio del festival. A Venezia è spettato dunque un arduo e pionieristico compito, che ha molto a che fare con il coraggio, l’incoscienza e la fede espressa da Cicutto. Se questa sia la vera ripartenza saranno i mesi a venire a dircelo, anche e soprattutto con la distribuzione in sala.

Le polveri della nuova stagione cinematografica sono infatti bagnate, tra un “Tenet” pigliatutto, un “Mulan” in live action che la Disney ha preferito rendere disponibile direttamente in streaming senza passare per i multisala e qualche raro esempio di film veneziano gettato nella mischia dei cinema, per vedere l’effetto che fa. Storicamente le pellicole presentate alla Mostra escono quasi in contemporanea in sala, per sfruttare l’onda mediatica. Quest’anno, però, i distributori sembra non sappiano davvero che fare. Solo gli italiani “Molecole” di Segre, “Notturno” di Rosi e “Non odiare” di Bruno Mancini sono stati regolarmente distribuiti. Mentre – ad esempio – “Pieces of a Woman” di Mundruczó (prodotto da Scorsese) è stato acquistato da Netflix. Bisogna entrare in una nuova ottica: la sfida non è più quella tra cinema al cinema e cinema a casa, tra visioni “belle” su megaschermi con audio Dolby Atmos e visioni “brutte” sui 13 pollici del proprio pc; l’obiettivo è che di cinema si possa ancora continuare a parlare, in qualsiasi forma e su qualsiasi supporto, accettando le nuove regole del gioco.

Tutti i premi di Venezia 77

  • LEONE D’ORO per il miglior film a “Nomadland” di Chloé Zhao

  • GRAN PREMIO DELLA GIURIA a “Nuevo orden” di Michel Franco

  • LEONE D’ARGENTO per la miglior regia a “Wife of a Spy” di Kiyoshi Kurosawa

  • PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA a “Dear Comrades” di Andrey Konchalovsky

  • COPPA VOLPI per l’interpretazione femminile a Vanessa Kirby (“Pieces of a Woman”)

  • COPPA VOLPI per l’interpretazione maschile a Pierfrancesco Favino (“Padrenostro”)

  • PREMIO OSELLA per la migliore sceneggiatura a Chaitanya Tamhane (“The Disciple”)

  • LEONE DEL FUTURO – MIGLIOR OPERA PRIMA a “Listen” di Ana Rocha de Sousa

  • PREMIO ORIZZONTI per il miglior film: “The Wasteland” di Ahmad Bahrami

  • PREMIO SETTIMANA DELLA CRITICA a “Ghosts” di Azra Deniz Okyay

  • PREMIO GIORNATE DEGLI AUTORI a “200 Meters” di Ameen Nayfeh

Filippo Zoratti

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Mostra del Cinema di Venezia 2020 – Venezia 77 L’inizio di una nuova era (?)

Mostra del Cinema di Venezia 2020 – Venezia 77 L’inizio di una nuova era (?)

di Filippo Zoratti

Mai come quest’anno la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia è un affare per giocolieri, trapezisti, amanti del rischio e del pericolo. In tal senso, parla chiaro la nuova grafica realizzata da Lorenzo Mattotti, con due trapezisti sospesi nel vuoto, tesi nella rappresentazione del loro esercizio. Venezia 77 ama forgiarsi del titolo di primo grande festival a ripartire in era Covid, dopo la necessaria rinuncia a maggio di Cannes e dopo che altre realtà – come ad esempio il Far East Film Festival di Udine – ha preferito spostarsi in blocco on-line, appoggiandosi a MyMovies (scelta, per altro, indovinatissima).

Non è ovviamente ancora del tutto chiaro se quella intrapresa dalla Mostra sia una strada particolarmente virtuosa o particolarmente azzardata. Probabilmente, è entrambe le cose: ci vuole coraggio e incoscienza per riformulare e aggiornare una macchina oliata in ogni minimo dettaglio, facendo da apripista per le manifestazioni a venire. Dal 2 al 12 settembre, al Lido, gli accorgimenti saranno molteplici: 9 punti di ingresso con termoscanner per la temperatura, ingressi contingentati e solo su prenotazione (anche per gli accreditati), obbligo di mascherina e possibilità di assembramenti ridotta al minimo.

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Gli Orizzonti del concorso

Proprio per evitare gli ammassamenti si è deciso di innalzare un “muro” di fronte al tappeto rosso: gli ospiti sfileranno comunque, ma saranno visibili in pratica solo dai megaschermi (o, per chi vi avrà accesso, alle conferenze stampa). È bene sottolineare come, anche da questo punto di vista, si tratterà di un’edizione piuttosto sperimentale e anomala che, facendo di necessità virtù, abbandonerà un po’ il richiamo al vip di turno per tornare a concentrarsi maggiormente sulle nuove scoperte, sul cinema del futuro. Basta leggere l’elenco dei 18 film in concorso, per rendersene pienamente conto: al di là degli aficionados Konchalovsky, Gitai e Rosi, e di qualche nome che abbiamo imparato a conoscere soprattutto grazie a Berlino (la polacca Szumowska con “Never Gonna Snow Again” e l’ungherese Mundruczó con “Pieces of a Woman”), la selezione proporrà una folta schiera di carneadi a caccia di allori. Pensiamo a Mona Fastvold, Julia von Heinz, Jasmila Zbanic; o anche all’italiano Claudio Noce, che con il suo “Padrenostro” cerca quella conferma mai arrivata dopo il buon successo ottenuto nel 2009 con “Good morning Aman”.

Sarà per tutti, insomma, una continua scoperta. E se per qualcuno questo elenco è semplicemente il chiaro segnale di un’annata per forza di cose minore e trascurabile, l’idea portante del direttore Alberto Barbera e dell’organizzatore Roberto Cicutto è quella – nelle intenzioni – di una sorta di parificazione delle sezioni, di una festa del cinema che annulli le distanze. Si è sempre detto che gli Orizzonti sono il vero concorso, libero dagli obblighi di visibilità della gara ufficiale; stavolta, invece, le due sezioni appaiano davvero intercambiabili, dedicate alla ricerca di nuovi talenti da far conoscere al grande pubblico. Tra i lungometraggi spiccano il nuovo capitolo della New Weird Wave greca “Mila (Apple)”, “Mainstream” di Gia Coppola (nipote di Francis Ford), “The Man Who Sold His Skin” della tunisina Kaouther Ben Hania. Titoli importanti, che annullano o ridimensionano la definizione di “collaterale” sostituendola con quella di “globale”. A completare il carnet, infine, ci pensano le 10 opere – più 5 extra, tra cui il film di chiusura “Saint-Narcisse” di Bruce LaBruce – delle Giornate degli Autori e le 9 della Settimana della Critica.

Il Reale e il Virtuale

Saggiamente, Venezia 77 guarda al futuro anche in altre due modalità. Anzitutto, comprendendo – finalmente? – appieno che da questo momento in poi la compenetrazione di “reale” e “virtuale” diventerà la norma. Se il festival non può naturalmente rinunciare al suo lato umano e “fisico”, di scambio culturale in una unica unità di spazio e luogo, va altresì considerato come la formula dell’on-line non è più un optional da guardare con scetticismo. Quella che fino all’anno scorso era quindi una simbolica “Sala Web”, con la programmazione di un unico film al giorno da fruire da casa, oggi diventa invece una vera e propria piattaforma, che permette anche a distanza e da remoto di vivere giorno per giorno la kermesse. Oltre 20 pellicole saranno infatti disponibili su MyMovies, tra Fuori Concorso (c’è anche “Molecole” di Andrea Segre) e Orizzonti (con “Genus Pan” di Lav Diaz), Giornate degli Autori e Settimana della Critica, fino anche alla “palestra” del Biennale College.

A questa decisione si affianca quella del mutuo aiuto reciproco con altre realtà nazionali. Se per problemi di logistica la sezione Sconfini è stata momentaneamente eliminata, i Venezia Classici si sono invece spostati in blocco a Bologna, al festival Il Cinema Ritrovato (rassegna pluri-trentennale dedicata alla riscoperta di film rari e poco noti) tenutosi dal 25 al 31 agosto. Tra i restauri proposti citiamo qui “Cronaca di un amore” di Antonioni, “Quei bravi ragazzi” di Scorsese, “Sedotta e abbandonata” di Germi, “Serpico” di Lumet. Una soluzione non certo di ripiego, e potenzialmente replicabile anche nelle edizioni a venire, qualora la riduzione dei posti in sala diventasse non più un’eccezione ma una regola da seguire per poter continuare a vivere l’esperienza condivisa del cinema.

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Una giuria di pionieri

Il compito delle giurie sarà quest’anno quanto mai delicato: stabilire un Leone d’Oro assumerà inevitabilmente anche i contorni simbolici della ripartenza e della speranza, da tramandare ai posteri come momento di svolta e rinascita di un industria in difficoltà. A raccogliere questa sfida sarà una giuria composta, tra gli altri, dall’attore americano Matt Dillon e dalla regista austriaca Veronika Franz (autrice di “Goodnight Mommy”, uno dei colpi di fulmine della Mostra del 2014, e moglie dell’Ulrich Seidl di “Canicola”), oltre che dalla presidentessa Cate Blanchett. Impossibile, a scatola chiusa e con così tante incognite, individuare quelli che potrebbero essere i titoli prediletti dal gruppo, ai quali spetta un onere inedito, quasi da pionieri della Settima Arte.

Del resto, come ricorda la stessa Blanchett, «È un privilegio, un piacere e un grande onore essere qui oggi. Sembra quasi un miracolo. Aspettavo con ansia di poter venire qui, sono pronta ad applaudire gli organizzatori del festival per la loro capacità inventiva, per la loro resilienza, per la loro capacità collaborativa. Sono pienamente d’accordo sul fatto che si dovesse riaprire, in modo ovviamente sicuro. Il cinema ha avuto dei mesi difficilissimi, ma deve sforzarsi di riemergere». Una riemersione che ha bisogno di sostegno, supporto e fiducia, nonostante la paura: «Ho tante paure ma dobbiamo essere coraggiosi, credo. Una volta che si parte con un progetto bisogna buttare via tutto il resto e rischiare, rischiare anche di fallire». Proprio come i funamboli del poster di lancio, in perenne bilico ma pronti a giocarsi il tutto per tutto.

Filippo Zoratti

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Mostra del Cinema di Venezia 2018 – Venezia 75

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Dedicato agli Oscar, a Netflix, al Messico

di Filippo Zoratti
 

Il palmares di Venezia 75 – tra inaspettati doppi premi e promesse mantenute – lascia sul campo alcune vittime illustri, perlopiù europee. Era difficile immaginare che l’ungherese “Tramonto” di László Nemes e l’italiano “Suspiria” di Luca Guadagnino restassero totalmente a bocca asciutta, ad esempio. Oppure che neanche questo fosse l’anno giusto per la consacrazione del francese Olivier Assayas, erede designato della Nouvelle Vague, o del giapponese Shinya Tsukamoto, universalmente riconosciuto come uno degli autori più importanti della Storia del cinema asiatico. Ma la giuria presieduta da Guillermo del Toro è parsa – più che in altre occasioni – totalmente coesa e convinta: il Leone d’Oro va ad Alfonso Cuarón e al suo “Roma”, con corollario di polemiche sulla dignità dei film Netflix presenti in gara (alimentata dall’Osella per la sceneggiatura assegnata a “La ballata di Buster Scruggs” dei Coen), sulla anomalia di un presidente messicano che premia un conterraneo e sulla natura apertamente filo-americana della “nuova” Mostra del Cinema di Venezia post-Marco Muller, viatico ormai da un lustro degli Academy Awards hollywoodiani.

From Mexico to Mexico

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Se era scritto nelle stelle fin dall’annuncio della sua presenza in concorso che Cuarón avrebbe portato a casa qualcosa col suo nuovo lavoro “Roma” (che non è un film in costume dedicato all’impero romano ma una riflessione auto-biografica sul quartiere messicano in cui il regista è cresciuto), difficilmente avremmo potuto immaginare che quel premio potesse essere il più importante del festival. Non tanto per la qualità dell’opera, quanto perché la possibilità che un presidente di giuria messicano premiasse un suo amico e connazionale ci era da subito sembrata fin troppo smaccata e indifendibile. E invece la pellicola dell’autore di “Gravity” ha messo tutti d’accordo: dal sopraccitato del Toro all’australiana Naomi Watts, dall’austriaco Christoph Waltz alla polacca Malgorzata Szumowska. L’evidenza non si può negare: quella messicana è una delle realtà cinematografiche più interessanti degli ultimi anni, tenuta in altissima considerazione dagli Oscar e dai festival di mezzo mondo. Oltre a del Toro e a Cuarón ci sono Alejandro González Iñárritu (Birdman e Revenant), Carlos Reygardas (Post Tenebras Lux e Nuestro tiempo, quest’ultimo in concorso proprio a Venezia 75) e Guillermo Arriaga (The Burning Plain e lo script di Le tre sepolture di Tommy Lee Jones), tanto per fare qualche nome. C’è insomma un progetto di alto profilo e alta caratura, che giustamente inizia a trovare i meritati sbocchi. Ha vinto dunque il migliore? Probabilmente sì, ma se il presidente di giuria fosse stato qualcun altro ci troveremmo di fronte ad un premio ancora più significativo e potente, privo di qualunque ombra.

Netflix o non Netflix? (Questo è il problema)

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Mentre Berlino prosegue il suo personale discorso sulla valorizzazione delle cinematografie più nascoste o comunque meno valorizzate (l’Iran di Una separazione, la Romania di Il caso Kerenes, l’Ungheria di Corpo e anima), Cannes e Venezia stanno ingaggiando un interessantissimo duello per la supremazia festivaliera. Oggetto del contendere in questi anni è Netflix, che si propone come vera e propria casa di distribuzione alternativa alla sala. Se Cannes ha del tutto ostracizzato i film realizzati dalla piattaforma web non solo dal concorso ufficiale ma anche dalle sezioni collaterali, Venezia si è mossa in direzione ostinata e contraria aprendo totalmente ai cosiddetti “originali Netflix”. Al Lido Netflix è ovunque, perché le viene conferita pari dignità a qualunque altra pellicola. Con Venezia 75 si è aperto il vaso di Pandora: “Roma” sarà visibile su Netflix (ma anche al cinema), così come “La ballata di Buster Scruggs” e – ad esempio – “Sulla mia pelle” (il film incentrato sulla terribile vicenda Cucchi). Le polemiche seguite alla premiazioni ci sembrano strumentali: Netflix non toglie spettatori alle sale cinematografiche; semmai abitua il nuovo pubblico ad una compresenza, formando una generazione di fruitori legati a doppio filo a internet e alle nuove tecnologie. Netflix crea una connessione con la magia del cinema al cinema, non la compromette. E per capire quanto la diatriba sia sterile basta pensare a chi trionfa ai festival e poi sparisce dalla circolazione, senza mai venire distribuito. Come il filippino “The Woman Who Left”, Leone d’Oro 2016, o il turco “Bal”, Orso d’Oro 2010. Vincitori che svaniscono nel nulla, all’interno di un mercato che proprio grazie a Netflix ha ritrovato ossigeno e ragion d’essere.

Leoni hollywoodiani, Oscar veneziani

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La più grande vittoria della Mostra, almeno da cinque anni a questa parte, è quella di essere diventata il catalizzatore dei gusti del pubblico contemporaneo, lo stesso che poi riempie le sale. Per qualcuno è un patto col diavolo: per incontrare i favori degli spettatori occorre aprirsi e “vendersi” al cinema americano più pop(olare), abbandonare la logica dell’autorialità abbracciando un’industria votata al blockbuster. È una scelta di campo discutibile, il cui percorso tuttavia non è ancora del tutto compiuto, è ancora in itinere. Pellicole come “Birdman”, “La La Land” e “La forma dell’acqua” sono senza alcun dubbio ascrivibili al mainstream statunitense, ma racchiudono al contempo al loro interno i germi di una certa nuova indipendenza di idee, di un certo nuovo respiro d’essai. Forse l’obiettivo veneziano è questo: dimostrare che il compromesso non significa per forza rinuncia, snaturamento e corruzione di un ideale, di un talento. Se leggiamo i vincitori di Venezia 75, capiamo che potrebbero essere anche quelli dei prossimi Oscar: il Leone d’Oro di “Roma”, il Leone d’Argento di “The Sister Brothers”, il Gran Premio della Giuria di “La favorita”, la Coppa Volpi maschile di “At Eternity’s Gate” (a Willem Defoe), sono tutti allori che indicano nettamente una dichiarazione politica di intenti, una scommessa sul cinema del futuro. E se il pronostico si rivelerà azzeccato, il 24 febbraio 2019 a Los Angeles assisteremo in diretta ad un evento epocale: il primo Oscar targato Netflix. Prepariamo i pop-corn.

Filippo Zoratti

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Mostra del Cinema di Venezia 2018 – Venezia 75

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I film più attesi

di Filippo Zoratti
 

Dal 29 agosto all’8 settembre 2018 si alza di nuovo il sipario su uno degli eventi cinematografici più importanti al mondo: la Mostra del Cinema di Venezia. In questi ultimi anni il festival diretto da Alberto Barbera si è ripreso il suo posto di rilievo e di prestigio, pareggiando i conti con Berlino e soprattutto con Cannes. La scelta – di cui si può discutere, ma che si è rivelata senza dubbio vincente – è stata quella di una maggior apertura al cinema popolare: i film di punta presenti al Lido sono anche i più quotati agli Oscar. Basti pensare a “Gravity” (7 statuette nel 2014), “Birdman” (4 nel 2015), “La La Land” (6 nel 2017) e “La forma dell’acqua” (4 nel 2018). Con la doverosa premessa che gli Academy Awards non sono rappresentativi di nulla, se non dell’America che premia se stessa, la Mostra catalizza da un lustro i gusti del pubblico che poi riempie le sale. Il miracolo accadrà anche quest’anno? Ecco una panoramica sulle sezioni di Venezia 75, con un occhio di riguardo ai film più attesi della kermesse.

Concorso e Fuori Concorso

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Ad aprire il festival sarà il nuovo film di Damien Chazelle, che al Lido aveva già portato nel 2016 – e sempre come titolo di apertura – il sopraccitato “La La Land”: “Il primo uomo” racconta la storia vera di Neil Armstrong, primo essere umano a mettere piede sul suolo lunare. Grande attesa di pubblico e addetti ai lavori, non solo per il Leone d’Oro ma anche per i futuri Oscar. L’America verrà anche rappresentata da Brady Corbet con “Vox Lux” (e da Natalie Portman nei panni di una popstar in ascesa), dai Fratelli Coen con “The Ballad of Buster Scruggs” (mini-serie prodotta da Netflix ambientata nel west) e dal misconosciuto Rick Alverson con “The Mountain”. Ma c’è lo zampino degli States in molte altre pellicole, sottoforma di coproduzione: occhi aperti quindi sulla Francia di “The Sisters Brothers”, debutto in lingua inglese di Jacques Audiard; sulla Grecia di “La favorita”, inedita incursione nel dramma storico-biografico di Yorgos Lanthimos; e naturalmente sull’Italia di “Suspiria”, remake attesissimo del classico di Dario Argento. Per gli amanti degli outsider poi, curiosità e speranze riposte anche in “Killing – Zan” del maestro Shinya Tsukamoto, in “Tramonto” di Laszlo Nemes (già autore del crudo e indimenticabile “Il figlio di Saul”) e in “Opera senza autore” di Florian Henckel von Donnersmarck, che dopo aver conquistato mezzo mondo con “Le vite degli altri” nel 2006 ha ceduto subito alle sirene hollywoodiane confezionando uno dei peggiori disastri commerciali degli ultimi anni, “The Tourist” con Johnny Depp e Angelina Jolie. Una rapidissima occhiata al Fuori Concorso, infine, soprattutto per segnalare quelli che avrebbero potuto essere film meritevoli della competizione ufficiale. Sul nostro taccuino appuntiamo “A Star is Born”, mega-rifacimento di “È nata una stella” (1937) che porterà sul tappeto rosso nientepopodimeno che Lady Gaga; “Shadow – Ying” del gigante cinese Zhang Yimou e “Monrovia, Indiana” di Frederick Wiseman, il più grande documentarista vivente. Davvero un peccato non vederli gareggiare nella competizione ufficiale.

Un concorso parallelo: la sezione Orizzonti

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Da sempre considerata una competizione parallela votata alla sperimentazione e al vero futuro del cinema, gli Orizzonti di anno in anno scoprono nuove tendenze e nuovi autori destinati a lasciare traccia indelebile di sé. A scatola chiusa è difficile destreggiarsi fra nomi perlopiù sconosciuti e sollecitazioni della più svariata natura, ma vale la pena provarci. Phuttipong Aroonpheng ad esempio viene segnalato come l’erede designato del cineasta thailandese Apichatpong Weerasethakul (Palma d’Oro a Cannes 2010 con “Lo zio Bonmee che si ricorda le vite precedenti”), e con questa fama va da sé che il suo “Manta Ray” sembri uno dei titoli più interessanti. E sempre partendo dall’autore ci sembra meritevole di attenzione anche Flavia Castro, che a Venezia porta “Deslembro” e la fama di autrice capace di mescolare sfera privata (è figlia di militanti trotskisti brasiliani) e socio-politica. L’Italia porta in dote due giovani registi, Alessio Cremonini ed Emanuele Scaringi, con due opere che faranno discutere anche se per motivi diversi: da un lato “Sulla mia pelle”, opera di finzione sulla vicenda di Stefano Cucchi, dall’altra “La profezia dell’armadillo”, trasposizione del graphic novel firmato dall’amatissimo fumettista Zerocalcare. È su un lavoro statunitense che tuttavia puntiamo fortemente per la vittoria: “Charlie Says” di Mary Harron, incentrato sulla storia vera di tre donne condannate all’ergastolo per aver aver commesso dei crimini ordinati da Charles Manson.

Sezioni autonome: Settimana della Critica e Giornate degli Autori

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Parallelamente ai percorsi più evidenti, sui quali si concentra l’attenzione maggiore dell’opinione pubblica anche in virtù di grandi nomi di richiamo (sia dietro che davanti la cinepresa), si muovono le ormai confermatissime sezioni autonome. Anche in questo caso si procede quasi sempre a scatola chiusa, animati dal piacere di scoprire magari per caso film di altissimo profilo lontani dagli squilli di tromba del red carpet. Innovazione, ricerca, originalità espressiva e indipendenza produttiva: queste le carte vincenti dei lavori presenti nella Settimana e nelle Giornate. E allora le nostre antenne si alzano per “M” di Anna Eriksson, che esplora il mondo fra sessualità e morte; per “Continuer – Keep Going” di Joachim Lafosse, storia di una madre e di un figlio che attraversano il Kirghizistan a cavallo; e per “Les tombeaux sans noms” di Rithy Panh, che prosegue la sua riflessione sul passato della Cambogia sotto il regime degli Khmer rossi dopo “L’immagine mancante”. Un paniere ricchissimo quello di Venezia 75, arricchito anche da eventi speciali (“The Other Side of the Wind” di Orson Welles!), dalla nuova sezione Sconfini (che presenterà ben 4 film italiani) e dalla piccola ma fondamentale Biennale College (occhio all’ungherese “Deva”, potrebbe essere una rivelazione). Il compito delle giurie sarà al solito arduo: attendiamo con grande curiosità i responsi di sabato 8 settembre.

Filippo Zoratti

Cinema videomaker

Oscar 2018

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Potere al sogno (in attesa di tempi migliori)

di Filippo Zoratti

 

Iniziamo dal fondo, dagli esclusi e dai delusi. In una annata “ecumenica” che premia equamente una decina di film (ma il colpo di reni finale c’è ed è appannaggio di “La forma dell’acqua”, che incassa le statuette per la Miglior Regia e per il Miglior Film) a restare a bocca asciutta è quella che sulla carta avrebbe dovuto essere una delle sicure vincitrici: a suggello del “Time’s Up”sembrava certa, anzi scontata la consacrazione di Greta Gerwig col suo “Lady Bird”, dolceamaro racconto di formazione di provincia, molto indie e – in parte – molto autobiografico. Sulla stessa lunghezza d’onda ci è parso il sottostimato “Tonya”, che racimola sì il premio come Miglior Attrice Non Protagonista (Alison Jenney), ma che viene ignorato per molte altre categorie per le quali l’Academy ha preferito un altro tipo di coraggio.

La forma dell'acqua

La forma dell’acqua

Alison Jenney

Alison Jenney

Quello di Frances McDormand (Miglior Attrice Protagonista) in “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”, ad esempio, o quello di Daniela Vega nello scomodo “Una donna fantastica (Miglior Film Straniero per il Cile). Tutto questo per dire che a fare i pronostici misurando il termometro della prevedibilità spesso ci si azzecca, ma non sempre. A stupire positivamente in questa edizione numero 90 sono stati i due allori alla sceneggiatura, più di ogni cosa: da un lato (Sceneggiatura Originale) “Scappa – Get Out”, gioco al massacro meta-horror che sancisce la fine dell’era Obama e ci introduce drasticamente in quella Trump; dall’altro (Sceneggiatura Non Originale) “Chiamami col tuo nome”, che consacra il quasi 90enne James Ivory al posto dello sdoganato “Logan” (anche i cinecomics hanno un’anima). Fra le righe, tuttavia, emerge un altro tipo di dichiarazione di intenti: dopo anni in cui a trionfare è stato il film più corretto e rappresentativo, quello più cinematograficamente etico e attuale – basti pensare a “12 anni schiavo”, a “Moonlight” e al cinematograficamente mediocre ma inattaccabile “Spotlight” –, gli Oscar rimettono a sorpresa al centro della propria analisi la necessità del sogno, della favola trasognata.

Scappa – Get Out

Scappa – Get Out

E dunque, in mezzo ai più contingenti e necessari “The Post”, “L’ora più buia”, “Scappa” e “Tre manifesti”, a spuntarla è l’assurdità incantata di Guillermo del Toro, che assurge definitivamente al ruolo di cineasta non di certo con la sua opera migliore (ma qui potrebbe seguire dibattito): “La forma dell’acqua” è una storia della buonanotte nostalgica e non omologata, che flirta con il melodramma – a rischio ultra-kitsch – e chiede un atto di fede grande quanto il cuore del suo creatore (amante dei mostri e non di certo della “mustard”, come tradotto erroneamente dal palco di Venezia 74 a settembre). Agli Oscar si chiede sempre un segnale, un riassunto di ciò che il cinema è o sarà nel futuro prossimo venturo. Tra epurazioni preventive (la maldestra cacciata di James Franco e del suo gustoso “The Disaster Artist”) e questioni spinose da affrontare e risolvere, l’Academy sceglie di… non scegliere, di non affondare il colpo e restare sul vago. In attesa di idee e decisioni più chiare meglio affidarsi e abbandonarsi al semplice amore per il cinema, ripescando dal cilindro la sempreverde “speranza per un mondo migliore”. Un mondo in cui è possibile che una addetta alle pulizie muta viva per sempre con la sua anima gemella, una creatura anfibia dall’aspetto umanoide.

 

Filippo Zoratti

 

 

 

Cinema videomaker

Far East Film Festival 19 – FEFF 2017

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Terza parte: il mattino ha l’oro in bocca

di Filippo Zoratti
 

Sta iniziando a diventare un rito: per il quarto anno consecutivo a vincere il più grande festival del cinema popolare asiatico è stato il film proiettato alle 10 di mattina della prima – e unica – domenica di programmazione. 2014: “The Eternal Zero”; 2015: “Ode to my Father”; 2016: “A Melody to Remember”… e 2017 la transgender-family dramedy giapponese “Close-Knit”. Indubbiamente, una delle migliori proposte dell’edizione, già vista e apprezzata alla Berlinale di quest’anno. Una storia delicata e in punta di

I am not Madame Bovary

I am not Madame Bovary

cinepresa, incentrata su una ragazzina di 11 anni che si trasferisce dallo zio Tomio e fa la conoscenza della sua nuova compagna, la transgender Rinko. L’opera fa il paio con la proiezione del filippino “Die Beautiful”, visto nella sera di venerdì, e segna – a poco più di un mese dal primo Pride del Friuli Venezia Giulia – una piacevole presa di coscienza internazionale e mondiale: la comunità LGBT (a cui si aggiungono la Q di Queer, la I di Intersex e la A di Asessuali) non viene più cinematograficamente trattata come una macchietta, come un alleggerimento comico. Le due pellicole sopraccitate sono complete, universali, e il fatto che il variegato microcosmo del Far East – formato sia da cinefili della prima ora che da spettatori occasionali dell’ultim’ora – abbia così capillarmente accolto e compreso il valore dell’offerta ha il sapore del trionfo. Anche perché quest’anno il programma del Feff era costellato di lavori qualitativamente sopra la media: a partire dalla seconda posizione, il bowling drama “Split”, che conferma la capacità coreana di intercettare le grandi platee e di

Mad World

Mad World

dar vita a drammaturgie autoriali e

autorevoli. Fra i pezzi pregiati dell’edizione 19 c’è anche il vincitore del MyMovies Award, l’hongkongese “Mad World”, potenziale asso pigliatutto rimasto invece al palo di un Gelso d’Oro minore. Peggio è andata al quotatissimo cinese “I am not Madame Bovary”, dello Spielberg cinese Feng Xiaogang, che è parso fin da subito una spalla sopra tutti (non solo per l’insolito formato, un iris tondo che poche volte viene abbandonato a favore di un aspect ratio rettangolare) e che invece è tornato a casa a mani vuote. Ma del resto, come abbiamo già altre volte sottolineato, in una kermesse del genere gli allori e i premi hanno un valore relativo, servono più per i titoli dei giornali che per un vero e proprio palmares. Il principale obiettivo di uno showcase come il Far East è quello di offrire un affresco

Split

Split

di ciò che è successo nell’ultimo anno da un punto di vista artistico nei Paesi del continente asiatico. Lo spunto

trasversale della disillusione nei confronti dell’autorità, ad esempio, è interessantissimo: in Corea non ci

si fida più delle forze dell’ordine, e tanto vale farsi giustizia da soli (oltre a “Split”, “Fabricated City”); a Hong Kong i medici e gli istituti di cura antepongono al bisogno di guarigione la necessità di liberare posti letto per alleggerire un sistema al collasso (“Mad World”); in Cina e Taiwan quasi si deride la figura del maestro/insegnante (“Mr. Zhu’s Summer”, “Mon Mon Mon Monsters”). È per questi percorsi, per questi filoni sotterranei da scoprire e sondare che il Far East Film Festival di Udine resta per gli amanti della Settima Arte uno degli appuntamenti imprescindibili dell’anno.

Filippo Zoratti

Cinema videomaker

54. Vienna International Film Festival – Viennale 2016

Del meglio del nostro meglio: 5 colpi di fulmine

di Filippo Zoratti

1) “The Happiest Day in the Life of Olli Mäki”, Finlandia 2016, di Juho Kuosmanen
A fare la storia sono davvero i vincitori? “The Happiest Day in the Life of Olli Mäki” – vincitore a sorpresa dell’Un Certain Regard a Cannes 2016 – narra di un gentile e innamorato perdente, che si caccia in una scommessa più grande di lui. Seguendo la tragicomica avventura di un panettiere di Kokkola, suo malgrado pugile e campione d’Europa nella categoria dilettanti che nel 1962 ha la chance di combattere per il titolo dei pesi piuma, Kuosmanen disegna una commedia umana che ricorda i microcosmi disincantati e grotteschi di Aki Kaurismaki. Tutto ciò che circonda il protagonista è anomalo, trasognato, ai confini del nonsense, perché filtrato dal suo punto di vista. La regia sobria ed elegante smonta qualunque afflato epico e competitivo: nelle sessioni di allenamento (così come nel fulmineo incontro per il titolo) non c’è climax, il ritmo è tutto concentrato sulla quotidianità di Olli e sulla sua surreale vita. “Olli Mäki” è la proposta della Finlandia ai prossimi Oscar, in lizza per il Miglior Film Straniero. E se questa favola, pervicacemente opposta all’american dream, facesse breccia nei cuori della giuria?

2) “Daft Punk Unchained”, Francia/Gran Bretagna 2015, di Hervé Martin-Delpierre
“Una cricca di giovani teppisti”. La storia dei Daft Punk inizia così, con una poco lungimirante recensione che il gruppo formato da Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter trasformerà – come loro solito – in oro. Dal 1993 quello dei Daft Punk diventa un marchio indelebile della musica elettronica. “Daft Punk Unchained” è un film alla ricerca di una aneddottica credibile, che renda plausibile l’incontro fra mito e realtà: dai ricordi di Michel Gondry, che sostiene che la nascita degli imprescindibili caschi derivi dalla realizzazione del video di “Around the World”, alla testimonianza di Nile Rodgers, che strimpellando alcune note alla chitarra ha gettato casualmente le basi per “Get Lucky”. Ma quello di Martin-Delpierre è anche un film di interventi e testimonianze, spesso acute (Pete Tong, Pharrell Williams e Giorgio Moroder su tutti). Considerando che i due componenti della band fanno l’impossibile per alimentare l’alone di leggenda attorno al loro lavoro, a “Daft Punk Unchained” non si può chiedere troppo, e in fondo ne siamo felici: buona parte dell’enigma risiede nello spirito ludico della coppia. I robot devono rimanere robot, e noi dobbiamo accettare le regole del gioco.

3) “El castillo de la pureza”, Messico 1972/1973, di Arturo Ripstein
Gabriel Lima, padre austero e bipolare, è determinato a salvare la propria famiglia dai mali del mondo nell’unico modo che gli sembra plausibile: rinchiudendoli fra le quattro mura della magione di sua proprietà. Lui è l’unico a poter uscire, mentre i tre figli e la moglie possono muoversi solo da una stanza all’altra del “castello”, all’occorrenza puniti per un tempo deciso dal loro dio/aguzzino. Se vi sembra di aver già sentito questa trama… bé, è così: “El castillo de la pureza” ha ispirato i titoli più rappresentativi della New Weird Wave greca, “Dogtooth” di Yorgos Lanthimos e “Miss Violence” di Alexandros Avranas (che, tuttavia, hanno sempre negato). Al netto di alcune significative differenze e di una diversa metaforizzazione, la grottesca conclusione è la medesima: quella del sonno della ragione che genera mostri, nell’ironica creazione di un inferno domestico di un uomo che vuole salvare i suoi cari dall’inferno del mondo esterno. Anche se ora guarderemo con occhi più scettici la natura derivativa di un’onda greca che ci era parsa orginale, inedita, genuina. E che invece era già stata raccontata (meglio) quasi quarant’anni prima.

4) “Homo Sapiens”, Austria 2016, di Nikolaus Geyrhalter
Tra i film che hanno fatto più discutere l’ultima Berlinale (purtroppo non in concorso ma nella sezione collaterale Forum), “Homo Sapiens” è una successione di immagini che potrebbero essere state prese da un film di fantascienza ambientato sul pianeta Terra dopo l’apocalisse. E invece il protagonista è il mondo devastato di oggi, o meglio è l’uomo e la scellerata distruzione di cui è inopinatamente capace. Palazzi abbandonati, cinema, scuole, prigioni, parchi divertimento: al centro della cinepresa di Geyrhalter c’è l’abuso che l’homo sapiens – appunto – impone alla natura, senza dialoghi e movimenti di macchina. Una serie impietosa di tableaux vivants dal terribile impatto visivo, ai quali non è necessaria alcuna introduzione. Un prodotto poetico che dimostra come, oltre al sempre ottimo Ulrich Seidl e al suo spaventoso cinema voyeuristico, la cinematografia austriaca sia viva e lotti insieme a noi. E lo stesso discorso vale per l’introspettivo e minimale “Kater”, thriller dell’anima e punta di diamante della Viennale 2016. Ci saremmo aspettati che uno dei due fosse il candidato austriaco ai prossimi Oscar; e invece la scelta è caduta sul forse più internazionale (ma altrettanto trascurabile) “Stefan Zweig, Farewell to Europe”.

5) “La larga noche de Francisco Sanctis”, Argentina 2016, di A. Testa e F. Marquez
Nel corso dei 78 tesissimi minuti di “La larga noche de Francisco Sanctis” non succede nulla, o quasi. Quella del protagonista è una notte da incubo perché, durante gli anni della dittatura militare argentina che va dal 1976 al 1983, finisce suo malgrado in possesso di informazioni sovversive e segrete su di una giovane coppia “desaparecida”. Francisco convive con la dittatura, pur ovviamente non amandola, ma a quel punto dovrà necessariamente fare i conti con la possibile disintegrazione della sua anonima ma sicura vita da impiegato con moglie e figli. Il personaggio non ci viene introdotto, quanto e se credere all’estraneità di Francisco lo dobbiamo decidere noi; di sicuro siamo partecipi della sua notte vagabonda per le strade di Buenos Aires, a caccia di qualcuno a cui “scaricare” la patata bollente per poter infine finalmente tornare a casa. Ma se la sua ricerca avrà successo non è dato sapere: il film – tratto da un romanzo di Humberto Costantini – si ferma magistralmente all’apice del climax, lasciandoci sospesi in un’atmosfera di soffocamento quasi insostenibile, e quasi certi che la rabbiosa frustrazione dell’impaurito Sanctis sia sul punto di esplodere.

Filippo Zoratti

Cinema videomaker

54. Vienna International Film Festival – Viennale 2016

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Kenneth, Jacques, Christopher e gli altri

di Filippo Zoratti
 

Oltre che per la sua invidiabile informalità, la Viennale (nome che omaggia e al contempo canzona la più impettita Berlinale) si distingue per l’entusiasta eterogeneità di contenuto. Il Vienna International Film Festival non prevede competizione, ma solo la “rappresentazione” e la divulgazione delle più interessanti opere passate durante l’anno nelle kermesse del resto del mondo. È il concetto portante dello Spielfilme, gara senza gara che comprende i migliori – e magari più discussi – film passati a Venezia, Locarno, Cannes, Sundance e Toronto. Quest’anno sono 79, fra cui il vincitore di Venezia 73 “The Woman Who Left”, gli ultimi lavori di autori contemporanei di punta (“Un padre, una figlia” di Cristian Mungiu, “Yourself and Yours” di Hong Sang-soo, “Elle” di Paul Verhoeven, “La ragazza senza nome” dei Dardenne, “Paterson” di Jim Jarmusch), le nuove scommesse (“Diamant noir”, il finlandese in corsa ai prossimi Oscar “The Happiest Day in the Life of Olli Maki”, “Cump4rsit4” dell’aficionado argentino Raul Perrone, il discusso “Nocturama” di Betrand Bonello) e le pellicole di più largo richiamo (“Personal Shopper” e “Certain Women” con Kristen Stewart, il film di chiusura “La La Land”). Tutto qui? Neanche per idea: oltre alla selezione ufficiale c’è un dedalo quasi inestricabile di tributi, focus speciali e retrospettive, con corollario di eventi extra-cinematografici. Fra un concerto di Patti Smith, una mostra fotografica e la proiezione gratuita di “Daft Punk Unchained” con annesso party è possibile approfondire in questa 54a edizione la cinematografia di Kenneth Lonergan – per inciso: il più talentuoso ed incompreso cineasta americano dei 2000, secondo Martin Scorsese, folgorato dal suo “Margaret” – ad esempio, cui è affidata l’apertura della manifestazione con “Manchester by the Sea”, o magari perdersi fra una sala e l’altra a caccia della quasi totale filmografia di Jacques Rivette, maestro della Nouvelle Vague. Fra i percorsi possibili, spiccano poi l’omaggio al “dancer in the dark” Christopher Walker (12 i film proposti, compreso il memorabile videoclip “Weapon of Choice” firmato da Spike Jonze) e il progetto sui cinegiornali cubani del decennio 1960-1970. Ci piace chiudere questa pur sommaria elencazione del denso cartellone della Viennale 2016 con quello che gli organizzatori definiscono il “Rinascimento analogico”, ovvero il rispolvero del re dei formati del cinema classico (il 70mm) favorito perlopiù dalla distribuzione di “The Hateful Eight” di Tarantino: la sezione “Analog Pleasure” è dedicata ai formati desueti della Settima Arte, destinati a non estinguersi nonostante l’avvento del digitale. Un approfondimento che contempla i super8 del collettivo berlinese Die Tödliche Doris, i 16mm di “La Vallée close”, i 35mm delle “Student Nurses” di Stephanie Rothman e – dulcis in fundo – i 70mm di Jacques Tati e del suo “Playtime”. Quello della capitale austriaca è un festival insaziabile e impossibile da abbracciare nella sua totalità, che suggerisce itinerari eclettici – cerebrali e popolari, d’essai e mainstream – ma comunque all’insegna del rifiuto dell’istituzionalità. 13 giorni che grazie all’approccio degli organizzatori Eric Pleskow, Hans Hurch e Eva Rotter diventano – parafrasando Tati – “tempo di divertimento”, opposto alle sovrastrutture festivaliere che fanno della loro supposta esclusività il proprio fiore all’occhiello.

Filippo Zoratti

 

 

Arte Musei videomaker

MACT/CACT Arte Contemporanea Ticino

DIGITAL FLOWS

Gianluca Abbate, Miguel Andrés, Barbara Brugola, Katharina Gruzei, Hwayong Jung, Cristina Ohlmer, Marta Roberti, Rimas Sakalauskas

A cura di Visualcontainer, Milano.

MACT/CACT

5 marzo – 3 aprile 2016

Ve-sa-do dalle 14:00 alle 18:00

DIGITAL FLOWS è la mostra che apre la stagione 2016. A cura di Visualcontainer Milano, l’esposizione rappresenta anche un omaggio all’instancabile lavoro di questo archivio video, che – per qualità dell’impegno e parallelamente allo spazio off [.Box] – si insinua nelle pieghe talvolta sterili delle istituzioni museali più accreditate. Nato nel 2008 nel cuore di Milano, Visualcontainer è diventato una sorta di showcase fondamentale per l’archiviazione e presentazione di un linguaggio ancora molto liquido e ancora fortemente in evoluzione quale il video d’artista. L’approccio internazionale e la visione globale dei suoi responsabili lo hanno alzato a luogo privilegiato, quasi una sorta di Archiv und Kunsthalle del linguaggio video nel centro della capitale economica d’Italia, solidificatisi più per i loro contenuti, che per un approccio di tipo, appunto, istituzionale.

Dagli anni 1970, il mezzo video ha subito innumerevoli cambiamenti, per così dire, di transito, passando dall’ipoteca visual-performativa all’ibridazione con l’allora prepotenza del mezzo televisivo-catodico, laddove l’universo pubblicitario entrava a forza nel mercato dell’immagine, parassitando l’arte video e il linguaggio artistico a tal punto da superarlo in molti casi e inducendo gli autori a riformulare giustamente l’approccio, spesso cannibalistico, al mezzo di produzione stesso.

Come la fotografia, anche il video è lo specchio documentativo più immediato del reale che ci circonda e che ci frammenta nella trans-identità del globale.

Dall’epoca, nella quale il video rappresentava la sperimentazione e una risposta antitetica all’esperienza visuale di radice pittorica (fine degli anni 1960), nell’epoca odierna del ‘già tutto sperimentato’ il nuovo è dato proprio e paradossalmente dalla recrudescenza del digitale, che intride la nostra esistenza di un comunicazionismo socio-global non per forza richiesto, ma che induce altresì a un nuovo modello estetico.

DIGITAL FLOWS (Flussi Digitali) intende proprio delineare e mettere in luce quest’ultima fase della produzione video.

Così si esprimono i curatori di Visualcontainer, Alessandra Arnò e Paolo Simoni, sulla mostra e sulle loro scelte curatoriali.

Miguel Andrés (Spagna,1982) System, 2014

[…] “L’immagine nella sua trascendenza digitale ora è immateriale, è un bit, un fascio di luce, risiede tra le nuvole, passa veloce attraverso la rete dei dati.

Cosa ci resta quindi della sua “inconsistenza” e cosa ci attrae verso l’immaterialità dell’immagine video, che sia forse il suo potere evocativo e illusorio?”

DIGITAL FLOWS è un flusso visivo che porta lo spettatore a sperimentare diversi livelli di consapevolezza alla visione attraverso un percorso installativo che parte dall’apice della fascinazione visiva del dato numerico, passando allo spaesamento tra reale quotidiano e panorami digitali, fino al palesarsi della condizione dello spettatore stesso attraverso la simulazione della propria rappresentazione.

La prima opera in mostra di Miguel Andrés, SYSTEM, rappresenta infatti una sorta di specchio, dove è possibile confrontarsi con un ipotetico uomo – macchina futuro, dove l’esperienza sensibile viene sostituita da quella tecnologica precompilata.

La bellezza sintetica è rappresentata attraverso le forme autogenerative dei paesaggi perfetti dell’opera EUPHORIA di Hwayong Jung. L’eleganza delle formule frattali che simulano il concetto di auto-similarità presente nel mondo reale, diventa una sorta di trappola per lo sguardo, che porta all’apice della fascinazione visiva e all’immersione totale in questi scenari digitali.

La sala espositiva diventa quindi luogo deputato “all’apparizione” e “manifestazione” dell’algoritmo numerico che manipola il dato reale attraverso una continua simulazione casuale di forme immateriali perfette.

Hwayong Jung (South Korea/USA, 1979)
Euphoria, 2014

 

L’occhio viene nuovamente ingannato dalla rassicurante rappresentazione della quotidianità nell’opera di Rimas Sakalauskas. SYNCRONIZATION svela strutture che inaspettatamente ri-fuggono dalla solita collocazione urbana. Lo scenario reale poco a poco cambia forma e la rassicurante stabilità del paesaggio urbano si anima, cambia connotazione e si trasforma in una rampa di lancio verso l’ignoto. L’oggetto reale torna al mondo “virtuale” delle idee con un moto inverso.

La perfetta rappresentazione del mondo contemporaneo viene editata come un continuo fluire di situazioni e scenari nell’opera PANORAMA di Gianluca Abbate. La rielaborazione digitale restituisce il melting pot contemporaneo in tutta la sua caoticità, stratificando livelli e paesaggi senza alcun confine in un unico flusso irrefrenabile di immagini del mondo globale.

Barbara Brugola
(Italia, 1965)
Lapse of View, 2012

Se le precedenti opere audiovisive giocano sullo spaesamento, LAPSE OF VIEW di Barbara Brugola ispirata all’opera ‘Viandante sul mare di nebbia’ di Caspar David Friedrich, fornisce un momento di riflessione sul visivo, un ritorno alla “vera” visione, esattamente come la protagonista dell’opera che osserva l’orizzonte, in silenzio, in attesa ed immersa nel bianco. Questo è un momento intimo di confronto con la realtà e con la sospensione dello sguardo.

Si ritorna fortemente al reale, alla visione e alla storia dell’arte visiva.

Ispirato alla pellicola dei Fratelli Lumière, WORKERS LEAVING THE FACTORY (AGAIN) di Katharina Gruzei, mostra degli operai che escono dalla fabbrica. Una sorta di quarto stato contemporaneo dove l’individualità diventa corpo collettivo. Gli operai potrebbero essere uomini, automi, schiavi, ad ogni modo sono attori nell’industria globale, come gli operai rappresentati dai Lumière sono attori dell’industria dell’immagine.

L’opera è quindi un ulteriore specchio di “riflessione” sulla condizione contemporanea sia in ambito sociologico che digitale.

Il percorso espositivo si estende inoltre su schermi e device, che inaspettatamente diventano da oggetto di uso quotidiano a luogo di apparizione di opere che riabituano l’occhio all’esercizio della visione come l’opera PIXEL MOTION di Cristina Ohlmer. Il quadretti colorati di un quaderno diventano l’unita di misura digitale, il pixel. Attraverso dieci esercizi di stile, il candido manto della foresta nera diventa pretesto per ricontestualizzare il ruolo del pixel e del digitale nello spazio analogico naturale.

Allo stesso modo, SCARABOCCHIO, opera di Marta Roberti, ripropone un’animazione classica sullo schermo di un dispositivo di uso quotidiano, che in questa occasione diventa memento digitale tascabile per questo ibrido umano-insetto, che tenta di ristabilire il proprio equilibrio.

Il cerchio espositivo si chiude e si riapre con opere-specchio, dove è possibile “riflettere” sulla condizione esistenziale, per poi abbandonarsi ai piaceri visivi. DIGITAL FLOWS gioca quindi sulla fascinazione visiva, sulla sospensione dell’incredulità e la rielaborazione del dato reale in chiave digitale, aprendo molteplici livelli di lettura sia sull’uso della tecnologia e il nostro rapporto con essa, che sul potere evocativo e illusorio.

Alessandra Arnò, 2015 […]

Mario Casanova, 2016

MACT/CACT
Arte Contemporanea Ticino

Direttore Mario Casanova
Coordinatore Pier Giorgio De Pinto

via Tamaro 3
CH – 6500 Bellinzona
Switzerland