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Far East Film Festival 19 – FEFF 2017

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Terza parte: il mattino ha l’oro in bocca

di Filippo Zoratti
 

Sta iniziando a diventare un rito: per il quarto anno consecutivo a vincere il più grande festival del cinema popolare asiatico è stato il film proiettato alle 10 di mattina della prima – e unica – domenica di programmazione. 2014: “The Eternal Zero”; 2015: “Ode to my Father”; 2016: “A Melody to Remember”… e 2017 la transgender-family dramedy giapponese “Close-Knit”. Indubbiamente, una delle migliori proposte dell’edizione, già vista e apprezzata alla Berlinale di quest’anno. Una storia delicata e in punta di

I am not Madame Bovary

I am not Madame Bovary

cinepresa, incentrata su una ragazzina di 11 anni che si trasferisce dallo zio Tomio e fa la conoscenza della sua nuova compagna, la transgender Rinko. L’opera fa il paio con la proiezione del filippino “Die Beautiful”, visto nella sera di venerdì, e segna – a poco più di un mese dal primo Pride del Friuli Venezia Giulia – una piacevole presa di coscienza internazionale e mondiale: la comunità LGBT (a cui si aggiungono la Q di Queer, la I di Intersex e la A di Asessuali) non viene più cinematograficamente trattata come una macchietta, come un alleggerimento comico. Le due pellicole sopraccitate sono complete, universali, e il fatto che il variegato microcosmo del Far East – formato sia da cinefili della prima ora che da spettatori occasionali dell’ultim’ora – abbia così capillarmente accolto e compreso il valore dell’offerta ha il sapore del trionfo. Anche perché quest’anno il programma del Feff era costellato di lavori qualitativamente sopra la media: a partire dalla seconda posizione, il bowling drama “Split”, che conferma la capacità coreana di intercettare le grandi platee e di

Mad World

Mad World

dar vita a drammaturgie autoriali e

autorevoli. Fra i pezzi pregiati dell’edizione 19 c’è anche il vincitore del MyMovies Award, l’hongkongese “Mad World”, potenziale asso pigliatutto rimasto invece al palo di un Gelso d’Oro minore. Peggio è andata al quotatissimo cinese “I am not Madame Bovary”, dello Spielberg cinese Feng Xiaogang, che è parso fin da subito una spalla sopra tutti (non solo per l’insolito formato, un iris tondo che poche volte viene abbandonato a favore di un aspect ratio rettangolare) e che invece è tornato a casa a mani vuote. Ma del resto, come abbiamo già altre volte sottolineato, in una kermesse del genere gli allori e i premi hanno un valore relativo, servono più per i titoli dei giornali che per un vero e proprio palmares. Il principale obiettivo di uno showcase come il Far East è quello di offrire un affresco

Split

Split

di ciò che è successo nell’ultimo anno da un punto di vista artistico nei Paesi del continente asiatico. Lo spunto

trasversale della disillusione nei confronti dell’autorità, ad esempio, è interessantissimo: in Corea non ci

si fida più delle forze dell’ordine, e tanto vale farsi giustizia da soli (oltre a “Split”, “Fabricated City”); a Hong Kong i medici e gli istituti di cura antepongono al bisogno di guarigione la necessità di liberare posti letto per alleggerire un sistema al collasso (“Mad World”); in Cina e Taiwan quasi si deride la figura del maestro/insegnante (“Mr. Zhu’s Summer”, “Mon Mon Mon Monsters”). È per questi percorsi, per questi filoni sotterranei da scoprire e sondare che il Far East Film Festival di Udine resta per gli amanti della Settima Arte uno degli appuntamenti imprescindibili dell’anno.

Filippo Zoratti

Cinema

Far East Film Festival 19 – FEFF 2017

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Seconda parte: Cinematografie minori… a chi?

di Filippo Zoratti
 

Se è vero che un ventennio di Far East Film Festival ha permesso al pubblico di approfondire la conoscenza di alcune cinematografie “maggiori” fino a quel momento pervenute a singhiozzo (in Cina non c’è solo Zhang Yimou, in Corea del Sud non c’è solo Kim Ki-duk), è altrettanto indiscutibile che l’evento friulano anno dopo anno ci ha fatto scoprire nazioni che – oggettivamente – non immaginavamo neppure avessero una loro Storia (di celluloide, s’intende). Ora, con maggior cognizione di causa, sappiamo che le opere giapponesi sono quelle che si avvicinano di più al gusto occidentale (nel bene e nel male); che la Cina, a causa della forte censura, è abilissima nel mettere in scena drammi iperrealisti che rimandano spesso ad “altro” (una velata critica verso le istituzioni, il trionfo di un individuo nel Paese in cui l’individuo è quasi per legge invisibile); che Hong Kong, in quanto “succursale” cinese, galoppa più a briglia sciolta verso l’action a rotta di collo e l’intrattenimento puro. Ma l’Asia, eterna miniera di scoperte, è destinata a continuare a sorprendere. In questi lustri sono finiti sotto i riflettori anche mondi

Mattie Do

Mattie Do

alieni, che mai avremmo immaginato tali. Chi avrebbe mai sospettato che la Malesia, ad esempio, fosse così amante del cinema di genere? Pellicole quali “Kala Malam Bulan Mengambang” (omaggio al noir), “Zombi Kampung Pisang” (dedicato ai morti viventi) e “Mrs K” (grindhouse western comedy, nella definizione del programma FEFF 2017) sono sì risultati bizzarri, persino imbarazzanti, ma dicono moltissimo di un Paese e delle sue aspirazioni, della tensione verso la modernità e la globalizzazione. L’edizione numero 19 ospita per la prima volta un lavoro proveniente dal Laos: “Dearest Sister” è – non è un eufemismo – il decimo film nella Storia della Repubblica Popolare sud-est asiatica, e già questa nota aumenta a dismisura la curiosità verso uno Stato che può permettersi di produrre cinema solo in co-produzione con l’estero (nel caso del film di Mattie Do con Francia ed Estonia).

Die Beautiful

Ci sono nazioni che pian piano si affermano, ed altre che con lo scorrere dei decenni riducono la loro importanza, quasi fino a sparire. Un esempio della prima categoria sono senza alcun dubbio le Filippine, accolte quasi con scherno dal pubblico nei primi anni di kermesse (operine come “D’Anothers” e “Agent X44”, seppur al netto del loro ostentato spirito parodico, non avrebbero potuto convincere del contrario) e ora invece al centro di un rinascimento che non riguarda solo Lav Diazè e Brillante Mendoza, ma anche il prolifico e pop Erik Matti (“The Arrival”, “Honor Thy Father”) e alcune nuove leve che non possiamo non considerare (“Die Beautiful” di Jun Robles Lana è uno dei titoli di punta di questa annata).

A perdere terreno invece, è in modo sempre più evidente la Tailandia, il cui ultimo acuto è stato “13 Beloved” (Far East 2007). Poi, l’involuzione artistica ha preso il sopravvento, tra presunti horror-ghost-dramas replicanti e la presenza schiacciante del campione Apichatpong Weerasethakul (detto Joe, per amore di brevità), Palma d’Oro a Cannes 2010 con “Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti”. La forbice dei nuovi Paesi da conoscere si allarga: quale sarà – dopo il Laos – il nuovomondo da esplorare nel 2018?

Filippo Zoratti

Cinema

Far East Film Festival 19 – FEFF 2017

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Prima parte: Una tribù che balla

di Filippo Zoratti
 

Secondo il calendario cinese, il 2017 è l’anno del Gallo. Un’annata dedicata alle persone coraggiose, elastiche, tenaci. Caratteristiche proprie anche del Far East Film Festival, che come di consueto cavalca l’onda dell’appoggio e della familiarità col proprio pubblico, muovendosi – serio e faceto – tra l’affermazione “istituzionale” di sé (perché per dar vita a tutto, nel 1998, c’è voluta una buona dose di incoscienza e audacia) e l’eterno gioco con i fareasters, gli amanti dell’evento a tutto tondo (ovvero

Survival Family

Survival Family

indipendentemente dalla qualità dei film della selezione). Se di gallo si parla dunque, si parla anche di “piume” (il gadget scelto per questa edizione) da appuntare come spille e a mò di tratto distintivo. Quella del FEFF è una tribù che balla, che si riconosce e che continua a seguire una manifestazione ormai radicata nel territorio friulano ed italiano “accettando il mistero”. Dopo 19 anni la superficie è appena scalfita: si riconoscono autori e correnti, si forma e si trasforma il gusto degli spettatori; ma al contempo ci si affaccia alla maggior parte delle proposte

I Am Not Madame Bovary

I Am Not Madame Bovary

ancora senza sapere a cosa si stia per assistere, accettando anche (enorme atto di fede della tribù) l’inevitabile scotto della promessa non mantenuta o della profonda delusione. Amare il Far East significa farlo “a scatola chiusa”: nessun festival nazionale sviluppa un’empatia così forte, ed è questo il vero patrimonio da tramandare di anno in anno, la vera forza della manifestazione. Il cinema diventa così, nelle parole degli organizzatori Sabrina Baracetti e Thomas Bertacche, un “antidoto al buio”: il buio delle coscienze intorpidite, il buio della rinuncia alla cultura, il buio della crisi (economica e di valori). Al Teatro Nuovo di Udine ogni anno si riunisce una festosa famiglia che vive e sopravvive nonostante tutto, e il gancio è presto fatto: ad aprire Far East 19 ci pensa il giapponese “Survival Family”, incentrato su un nucleo familiare che affronta la quotidianità dopo un improvviso e imprevedibile blackout mondiale. Una scelta chiara,

Love off the Cuff

Love off the Cuff

persino politica, cui fa da controcanto il ritorno dei tanti amici conosciuti in questi quattro lustri: Pang Ho-cheung con “Love off the Cuff”, Yamashita Nobuhiro con “My Uncle” e “Over the Fence”, Feng Xiaogang (lo Steven Spielberg cinese, a cui verrà conferito il Gelso d’Oro alla carriera) con “I Am Not Madame Bovary”, Erik Matti con “Seclusion”, Herman Yau con “The Sleep Curse” e “Shock Wave”. Come sempre, è impossibile tracciare un percorso univoco e, anzi, è altamente sconsigliabile: nella miriade di sollecitazioni peschiamo ancora a caso il primo film proveniente dal Laos (“Dearest Sister)”, l’evento “Die Beautiful” in collaborazione con l’FVG Pride, i restauri di “Made in Hong Kong” di Fruit Chan e di “Cain and Abel” di Lino Brocka. E puntiamo già su alcuni potenziali vincitori, opere che faranno sicuramente breccia nel cuore della platea, seguendo le personalissime definizioni della schedule ufficiale: la transgender-family “Close-Knit”, lo zero-to-hero ice hockey drama “Run-Off”, il quirky father-son drama “Shed Skin Papa” e l’offbeat youth drama “Love and Other Cults”. La tribù del FEFF, insomma, è pronta di nuovo a ballare.

 

Filippo Zoratti