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Mostra del Cinema di Venezia 2020 – Venezia 77 L’inizio di una nuova era (?)

Mostra del Cinema di Venezia 2020 – Venezia 77 L’inizio di una nuova era (?)

di Filippo Zoratti

Mai come quest’anno la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia è un affare per giocolieri, trapezisti, amanti del rischio e del pericolo. In tal senso, parla chiaro la nuova grafica realizzata da Lorenzo Mattotti, con due trapezisti sospesi nel vuoto, tesi nella rappresentazione del loro esercizio. Venezia 77 ama forgiarsi del titolo di primo grande festival a ripartire in era Covid, dopo la necessaria rinuncia a maggio di Cannes e dopo che altre realtà – come ad esempio il Far East Film Festival di Udine – ha preferito spostarsi in blocco on-line, appoggiandosi a MyMovies (scelta, per altro, indovinatissima).

Non è ovviamente ancora del tutto chiaro se quella intrapresa dalla Mostra sia una strada particolarmente virtuosa o particolarmente azzardata. Probabilmente, è entrambe le cose: ci vuole coraggio e incoscienza per riformulare e aggiornare una macchina oliata in ogni minimo dettaglio, facendo da apripista per le manifestazioni a venire. Dal 2 al 12 settembre, al Lido, gli accorgimenti saranno molteplici: 9 punti di ingresso con termoscanner per la temperatura, ingressi contingentati e solo su prenotazione (anche per gli accreditati), obbligo di mascherina e possibilità di assembramenti ridotta al minimo.

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Gli Orizzonti del concorso

Proprio per evitare gli ammassamenti si è deciso di innalzare un “muro” di fronte al tappeto rosso: gli ospiti sfileranno comunque, ma saranno visibili in pratica solo dai megaschermi (o, per chi vi avrà accesso, alle conferenze stampa). È bene sottolineare come, anche da questo punto di vista, si tratterà di un’edizione piuttosto sperimentale e anomala che, facendo di necessità virtù, abbandonerà un po’ il richiamo al vip di turno per tornare a concentrarsi maggiormente sulle nuove scoperte, sul cinema del futuro. Basta leggere l’elenco dei 18 film in concorso, per rendersene pienamente conto: al di là degli aficionados Konchalovsky, Gitai e Rosi, e di qualche nome che abbiamo imparato a conoscere soprattutto grazie a Berlino (la polacca Szumowska con “Never Gonna Snow Again” e l’ungherese Mundruczó con “Pieces of a Woman”), la selezione proporrà una folta schiera di carneadi a caccia di allori. Pensiamo a Mona Fastvold, Julia von Heinz, Jasmila Zbanic; o anche all’italiano Claudio Noce, che con il suo “Padrenostro” cerca quella conferma mai arrivata dopo il buon successo ottenuto nel 2009 con “Good morning Aman”.

Sarà per tutti, insomma, una continua scoperta. E se per qualcuno questo elenco è semplicemente il chiaro segnale di un’annata per forza di cose minore e trascurabile, l’idea portante del direttore Alberto Barbera e dell’organizzatore Roberto Cicutto è quella – nelle intenzioni – di una sorta di parificazione delle sezioni, di una festa del cinema che annulli le distanze. Si è sempre detto che gli Orizzonti sono il vero concorso, libero dagli obblighi di visibilità della gara ufficiale; stavolta, invece, le due sezioni appaiano davvero intercambiabili, dedicate alla ricerca di nuovi talenti da far conoscere al grande pubblico. Tra i lungometraggi spiccano il nuovo capitolo della New Weird Wave greca “Mila (Apple)”, “Mainstream” di Gia Coppola (nipote di Francis Ford), “The Man Who Sold His Skin” della tunisina Kaouther Ben Hania. Titoli importanti, che annullano o ridimensionano la definizione di “collaterale” sostituendola con quella di “globale”. A completare il carnet, infine, ci pensano le 10 opere – più 5 extra, tra cui il film di chiusura “Saint-Narcisse” di Bruce LaBruce – delle Giornate degli Autori e le 9 della Settimana della Critica.

Il Reale e il Virtuale

Saggiamente, Venezia 77 guarda al futuro anche in altre due modalità. Anzitutto, comprendendo – finalmente? – appieno che da questo momento in poi la compenetrazione di “reale” e “virtuale” diventerà la norma. Se il festival non può naturalmente rinunciare al suo lato umano e “fisico”, di scambio culturale in una unica unità di spazio e luogo, va altresì considerato come la formula dell’on-line non è più un optional da guardare con scetticismo. Quella che fino all’anno scorso era quindi una simbolica “Sala Web”, con la programmazione di un unico film al giorno da fruire da casa, oggi diventa invece una vera e propria piattaforma, che permette anche a distanza e da remoto di vivere giorno per giorno la kermesse. Oltre 20 pellicole saranno infatti disponibili su MyMovies, tra Fuori Concorso (c’è anche “Molecole” di Andrea Segre) e Orizzonti (con “Genus Pan” di Lav Diaz), Giornate degli Autori e Settimana della Critica, fino anche alla “palestra” del Biennale College.

A questa decisione si affianca quella del mutuo aiuto reciproco con altre realtà nazionali. Se per problemi di logistica la sezione Sconfini è stata momentaneamente eliminata, i Venezia Classici si sono invece spostati in blocco a Bologna, al festival Il Cinema Ritrovato (rassegna pluri-trentennale dedicata alla riscoperta di film rari e poco noti) tenutosi dal 25 al 31 agosto. Tra i restauri proposti citiamo qui “Cronaca di un amore” di Antonioni, “Quei bravi ragazzi” di Scorsese, “Sedotta e abbandonata” di Germi, “Serpico” di Lumet. Una soluzione non certo di ripiego, e potenzialmente replicabile anche nelle edizioni a venire, qualora la riduzione dei posti in sala diventasse non più un’eccezione ma una regola da seguire per poter continuare a vivere l’esperienza condivisa del cinema.

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Una giuria di pionieri

Il compito delle giurie sarà quest’anno quanto mai delicato: stabilire un Leone d’Oro assumerà inevitabilmente anche i contorni simbolici della ripartenza e della speranza, da tramandare ai posteri come momento di svolta e rinascita di un industria in difficoltà. A raccogliere questa sfida sarà una giuria composta, tra gli altri, dall’attore americano Matt Dillon e dalla regista austriaca Veronika Franz (autrice di “Goodnight Mommy”, uno dei colpi di fulmine della Mostra del 2014, e moglie dell’Ulrich Seidl di “Canicola”), oltre che dalla presidentessa Cate Blanchett. Impossibile, a scatola chiusa e con così tante incognite, individuare quelli che potrebbero essere i titoli prediletti dal gruppo, ai quali spetta un onere inedito, quasi da pionieri della Settima Arte.

Del resto, come ricorda la stessa Blanchett, «È un privilegio, un piacere e un grande onore essere qui oggi. Sembra quasi un miracolo. Aspettavo con ansia di poter venire qui, sono pronta ad applaudire gli organizzatori del festival per la loro capacità inventiva, per la loro resilienza, per la loro capacità collaborativa. Sono pienamente d’accordo sul fatto che si dovesse riaprire, in modo ovviamente sicuro. Il cinema ha avuto dei mesi difficilissimi, ma deve sforzarsi di riemergere». Una riemersione che ha bisogno di sostegno, supporto e fiducia, nonostante la paura: «Ho tante paure ma dobbiamo essere coraggiosi, credo. Una volta che si parte con un progetto bisogna buttare via tutto il resto e rischiare, rischiare anche di fallire». Proprio come i funamboli del poster di lancio, in perenne bilico ma pronti a giocarsi il tutto per tutto.

Filippo Zoratti

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Mostra del Cinema di Venezia 2018 – Venezia 75

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Dedicato agli Oscar, a Netflix, al Messico

di Filippo Zoratti
 

Il palmares di Venezia 75 – tra inaspettati doppi premi e promesse mantenute – lascia sul campo alcune vittime illustri, perlopiù europee. Era difficile immaginare che l’ungherese “Tramonto” di László Nemes e l’italiano “Suspiria” di Luca Guadagnino restassero totalmente a bocca asciutta, ad esempio. Oppure che neanche questo fosse l’anno giusto per la consacrazione del francese Olivier Assayas, erede designato della Nouvelle Vague, o del giapponese Shinya Tsukamoto, universalmente riconosciuto come uno degli autori più importanti della Storia del cinema asiatico. Ma la giuria presieduta da Guillermo del Toro è parsa – più che in altre occasioni – totalmente coesa e convinta: il Leone d’Oro va ad Alfonso Cuarón e al suo “Roma”, con corollario di polemiche sulla dignità dei film Netflix presenti in gara (alimentata dall’Osella per la sceneggiatura assegnata a “La ballata di Buster Scruggs” dei Coen), sulla anomalia di un presidente messicano che premia un conterraneo e sulla natura apertamente filo-americana della “nuova” Mostra del Cinema di Venezia post-Marco Muller, viatico ormai da un lustro degli Academy Awards hollywoodiani.

From Mexico to Mexico

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Se era scritto nelle stelle fin dall’annuncio della sua presenza in concorso che Cuarón avrebbe portato a casa qualcosa col suo nuovo lavoro “Roma” (che non è un film in costume dedicato all’impero romano ma una riflessione auto-biografica sul quartiere messicano in cui il regista è cresciuto), difficilmente avremmo potuto immaginare che quel premio potesse essere il più importante del festival. Non tanto per la qualità dell’opera, quanto perché la possibilità che un presidente di giuria messicano premiasse un suo amico e connazionale ci era da subito sembrata fin troppo smaccata e indifendibile. E invece la pellicola dell’autore di “Gravity” ha messo tutti d’accordo: dal sopraccitato del Toro all’australiana Naomi Watts, dall’austriaco Christoph Waltz alla polacca Malgorzata Szumowska. L’evidenza non si può negare: quella messicana è una delle realtà cinematografiche più interessanti degli ultimi anni, tenuta in altissima considerazione dagli Oscar e dai festival di mezzo mondo. Oltre a del Toro e a Cuarón ci sono Alejandro González Iñárritu (Birdman e Revenant), Carlos Reygardas (Post Tenebras Lux e Nuestro tiempo, quest’ultimo in concorso proprio a Venezia 75) e Guillermo Arriaga (The Burning Plain e lo script di Le tre sepolture di Tommy Lee Jones), tanto per fare qualche nome. C’è insomma un progetto di alto profilo e alta caratura, che giustamente inizia a trovare i meritati sbocchi. Ha vinto dunque il migliore? Probabilmente sì, ma se il presidente di giuria fosse stato qualcun altro ci troveremmo di fronte ad un premio ancora più significativo e potente, privo di qualunque ombra.

Netflix o non Netflix? (Questo è il problema)

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Mentre Berlino prosegue il suo personale discorso sulla valorizzazione delle cinematografie più nascoste o comunque meno valorizzate (l’Iran di Una separazione, la Romania di Il caso Kerenes, l’Ungheria di Corpo e anima), Cannes e Venezia stanno ingaggiando un interessantissimo duello per la supremazia festivaliera. Oggetto del contendere in questi anni è Netflix, che si propone come vera e propria casa di distribuzione alternativa alla sala. Se Cannes ha del tutto ostracizzato i film realizzati dalla piattaforma web non solo dal concorso ufficiale ma anche dalle sezioni collaterali, Venezia si è mossa in direzione ostinata e contraria aprendo totalmente ai cosiddetti “originali Netflix”. Al Lido Netflix è ovunque, perché le viene conferita pari dignità a qualunque altra pellicola. Con Venezia 75 si è aperto il vaso di Pandora: “Roma” sarà visibile su Netflix (ma anche al cinema), così come “La ballata di Buster Scruggs” e – ad esempio – “Sulla mia pelle” (il film incentrato sulla terribile vicenda Cucchi). Le polemiche seguite alla premiazioni ci sembrano strumentali: Netflix non toglie spettatori alle sale cinematografiche; semmai abitua il nuovo pubblico ad una compresenza, formando una generazione di fruitori legati a doppio filo a internet e alle nuove tecnologie. Netflix crea una connessione con la magia del cinema al cinema, non la compromette. E per capire quanto la diatriba sia sterile basta pensare a chi trionfa ai festival e poi sparisce dalla circolazione, senza mai venire distribuito. Come il filippino “The Woman Who Left”, Leone d’Oro 2016, o il turco “Bal”, Orso d’Oro 2010. Vincitori che svaniscono nel nulla, all’interno di un mercato che proprio grazie a Netflix ha ritrovato ossigeno e ragion d’essere.

Leoni hollywoodiani, Oscar veneziani

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La più grande vittoria della Mostra, almeno da cinque anni a questa parte, è quella di essere diventata il catalizzatore dei gusti del pubblico contemporaneo, lo stesso che poi riempie le sale. Per qualcuno è un patto col diavolo: per incontrare i favori degli spettatori occorre aprirsi e “vendersi” al cinema americano più pop(olare), abbandonare la logica dell’autorialità abbracciando un’industria votata al blockbuster. È una scelta di campo discutibile, il cui percorso tuttavia non è ancora del tutto compiuto, è ancora in itinere. Pellicole come “Birdman”, “La La Land” e “La forma dell’acqua” sono senza alcun dubbio ascrivibili al mainstream statunitense, ma racchiudono al contempo al loro interno i germi di una certa nuova indipendenza di idee, di un certo nuovo respiro d’essai. Forse l’obiettivo veneziano è questo: dimostrare che il compromesso non significa per forza rinuncia, snaturamento e corruzione di un ideale, di un talento. Se leggiamo i vincitori di Venezia 75, capiamo che potrebbero essere anche quelli dei prossimi Oscar: il Leone d’Oro di “Roma”, il Leone d’Argento di “The Sister Brothers”, il Gran Premio della Giuria di “La favorita”, la Coppa Volpi maschile di “At Eternity’s Gate” (a Willem Defoe), sono tutti allori che indicano nettamente una dichiarazione politica di intenti, una scommessa sul cinema del futuro. E se il pronostico si rivelerà azzeccato, il 24 febbraio 2019 a Los Angeles assisteremo in diretta ad un evento epocale: il primo Oscar targato Netflix. Prepariamo i pop-corn.

Filippo Zoratti

Cinema

Far East Film Festival 20, Teatro Nuovo Giovanni da Udine e Visionario dal 20 al 28 aprile

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Oggi alle 20 a Udine parte il Far East Film Festival 20

 

Lo spy thriller coreano Steel Rain apre la 20a edizione del Far East Film Festival!
Il viaggio nel “lontano Est” del Far East Film Festival si aprirà venerdì 20 aprile alle ore 20.00 con il super spy thriller coreano Steel Rain e il dramma malesiano Crossroads: One Two Jaga (alle ore 22.40) con la bellissima attrice Asmara che parla anche italiano!Intanto in città i led rossi di  via Mercatovecchio illumineranno lo spettacolo d’apertura dei FEFF Events. Una grande festa popolare che si aprirà venerdì 20 aprile alle  20.30 con la tradizionale  Danza del pesce e i tamburi giapponesi Taiko.

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Oscar 2018

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Potere al sogno (in attesa di tempi migliori)

di Filippo Zoratti

 

Iniziamo dal fondo, dagli esclusi e dai delusi. In una annata “ecumenica” che premia equamente una decina di film (ma il colpo di reni finale c’è ed è appannaggio di “La forma dell’acqua”, che incassa le statuette per la Miglior Regia e per il Miglior Film) a restare a bocca asciutta è quella che sulla carta avrebbe dovuto essere una delle sicure vincitrici: a suggello del “Time’s Up”sembrava certa, anzi scontata la consacrazione di Greta Gerwig col suo “Lady Bird”, dolceamaro racconto di formazione di provincia, molto indie e – in parte – molto autobiografico. Sulla stessa lunghezza d’onda ci è parso il sottostimato “Tonya”, che racimola sì il premio come Miglior Attrice Non Protagonista (Alison Jenney), ma che viene ignorato per molte altre categorie per le quali l’Academy ha preferito un altro tipo di coraggio.

La forma dell'acqua

La forma dell’acqua

Alison Jenney

Alison Jenney

Quello di Frances McDormand (Miglior Attrice Protagonista) in “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”, ad esempio, o quello di Daniela Vega nello scomodo “Una donna fantastica (Miglior Film Straniero per il Cile). Tutto questo per dire che a fare i pronostici misurando il termometro della prevedibilità spesso ci si azzecca, ma non sempre. A stupire positivamente in questa edizione numero 90 sono stati i due allori alla sceneggiatura, più di ogni cosa: da un lato (Sceneggiatura Originale) “Scappa – Get Out”, gioco al massacro meta-horror che sancisce la fine dell’era Obama e ci introduce drasticamente in quella Trump; dall’altro (Sceneggiatura Non Originale) “Chiamami col tuo nome”, che consacra il quasi 90enne James Ivory al posto dello sdoganato “Logan” (anche i cinecomics hanno un’anima). Fra le righe, tuttavia, emerge un altro tipo di dichiarazione di intenti: dopo anni in cui a trionfare è stato il film più corretto e rappresentativo, quello più cinematograficamente etico e attuale – basti pensare a “12 anni schiavo”, a “Moonlight” e al cinematograficamente mediocre ma inattaccabile “Spotlight” –, gli Oscar rimettono a sorpresa al centro della propria analisi la necessità del sogno, della favola trasognata.

Scappa – Get Out

Scappa – Get Out

E dunque, in mezzo ai più contingenti e necessari “The Post”, “L’ora più buia”, “Scappa” e “Tre manifesti”, a spuntarla è l’assurdità incantata di Guillermo del Toro, che assurge definitivamente al ruolo di cineasta non di certo con la sua opera migliore (ma qui potrebbe seguire dibattito): “La forma dell’acqua” è una storia della buonanotte nostalgica e non omologata, che flirta con il melodramma – a rischio ultra-kitsch – e chiede un atto di fede grande quanto il cuore del suo creatore (amante dei mostri e non di certo della “mustard”, come tradotto erroneamente dal palco di Venezia 74 a settembre). Agli Oscar si chiede sempre un segnale, un riassunto di ciò che il cinema è o sarà nel futuro prossimo venturo. Tra epurazioni preventive (la maldestra cacciata di James Franco e del suo gustoso “The Disaster Artist”) e questioni spinose da affrontare e risolvere, l’Academy sceglie di… non scegliere, di non affondare il colpo e restare sul vago. In attesa di idee e decisioni più chiare meglio affidarsi e abbandonarsi al semplice amore per il cinema, ripescando dal cilindro la sempreverde “speranza per un mondo migliore”. Un mondo in cui è possibile che una addetta alle pulizie muta viva per sempre con la sua anima gemella, una creatura anfibia dall’aspetto umanoide.

 

Filippo Zoratti

 

 

 

Cinema

55. Vienna International Film Festival Viennale 2017

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55. Vienna International Film Festival Viennale 2017: 5 colpi di fulmine

di Filippo Zoratti
  1. Ex Libris – The New York Public Library”, Usa 2016, di Frederick Wiseman

C’è qualcosa di commovente, puro e persino ingenuo nel modo in cui Frederick Wiseman, 87locandina anni, guarda all’umanità. Al centro di “Ex Libris” c’è la biblioteca pubblica di New York – con le sue 92 filiali dislocate tra Manhattan, il Bronx e Staten Island – e c’è più di ogni altra cosa la vita in divenire, la presa diretta di convention con studiosi e cantanti (Elvis Costello), riunioni del direttivo (argomento: la riduzione del divario digitale), bizzarre richieste di prestito (ma gli unicorni esistono sì o no?), corsi di scrittura per bambini. Ad unire il flusso eterogeneo degli incontri, l’idea indefessa di fiducia nella cultura che genera per naturale e quasi ovvia conseguenza democrazia. “Ex Libris” documenta il reale senza corrompere, modificare o forzare il significato delle immagini, con una limpida morale che viene da sé: la dignità umana passa inevitabilmente attraverso l’accesso all’informazione e allo scambio aggregativo, si tratti di una conferenza da migliaia di persone o di uno sparuto gruppo di persone sedute attorno ad un tavolo.

  1. A Ghost Story”, Usa 2017, di David Lowery

Si può prendere sul serio un film in cui il protagonista, a seguito di un incidente stradale mortale, ritorna come fantasma munito di lenzuolo con buchi per gli occhi? Le regole del gioco imposte dal regista David Lowery sono essenzialmente due: la totale sospensione dell’incredulità nei confronti della storia raccontata e un’idea di cinema che pone molte domande senza necessariamente poi fornire ghost1pedissequamente tutte le risposte. “A Ghost Story” è un prodotto ipnotico privo di confini narrativi (in paradossale contrasto con l’espediente tecnico del 4:3 ad angoli smussati) che flirta con i cliché del genere horror chiedendoci al contempo di guardare oltre, molto oltre. Fra l’atto del guardare e quello dell’attendere – resi attraverso stacchi di montaggio e brusche ellissi – c’è un film che riesce a dare forma e sostanza ad un concetto non rappresentabile: l’assenza. Un’assenza dolorosa e straziante (per chi resta e per chi non c’è più), che svilisce i ricordi e sfuma il senso della nostra identità.

  1. A Skin So Soft”, Canada/Francia/Svizzera 2017, di Denis Côté

È con lo stupore del neofita che il regista canadese Denis Côté si approccia al gruppo di cultuskin2risti e super-uomini protagonisti di “A Skin So Soft”. Fonte primaria di ispirazione per il filmmaker quebecchese sono i microcosmi a lui stesso estranei, da indagare con ingenuità e senza conoscenze pregresse. La quotidianità dei sei ingombranti bodybuilders Jean-François, Ronald, Maxim, Benoit, Cédric e Alexis non è mai filtrata attraverso lo stereotipo o la presa in giro: c’è chi piange mentre fa colazione, guardando video motivazionali su Youtube; chi a fine carriera si è reinventato maestro di vita/chinesiologo; chi cerca di convincere la propria perplessa compagna a coltivare la medesima passione; chi si allena in modo anomalo rispetto agli altri, perché wrestler e non culturista tout court. È un mondo parallelo ma non troppo, in cui emerge la fragilità dell’essere umano vittima delle proprie fissazioni. Verso l’infinito e oltre, alla ricerca di una personale, bislacca e muscolare idea di felicità.

  1. I Am Not Madame Bovary”, Cina 2016, di Feng Xiaogang

Assecondando la smania occidentale di etichette e classificazioni, si è soliti definire il registbovary1a Feng Xiaogang – in virtù di una carriera costellata di blockbuster di successo – “lo Steven Spielberg cinese”. Astutamente verboso e squisitamente fluviale, “I Am Not Madame Bovary” non è un film sulla Madame Bovary flaubertiana, ma su “una” Madame Bovary che rifiuta tale disdicevole appellativo. La storia ruota attorno a Li Xuelian, moglie caparbia che finge di divorziare dal marito per poter ottenere un appartamento in città. Incubo kafkiano e al contempo favola trasognata, “I Am Not Madame Bovary” ci trascina nelle segrete stanze del sistema legale cinese e dei suoi labirinti burocratici attraverso l’insolito utilizzo di un iris tondo che coincide con lo stato d’animo soffocato della protagonista. Incastrato in un meccanismo amorale e inestricabile, l’uomo è una delle microscopiche parti di un sistema abnorme e complesso; ma, come ammette uno dei burocrati perseguitati da Li Xuelian, “un seme è diventato un cocomero, una formica è diventata un elefante”.

  1. Closeness”, Russia 2017, di Kantemir Balagov

C’era molta curiosità attorno all’esordio alla regia di Kantemir Balagov, 26 anni, allievo prediletto del maestro Aleksandr Sokurov (“Arca russa”, “Faust”). “Closeness” a Cannes ha conquistato tutti, closenesscon il suo stile asciutto e la sua idea di cinema stratificata e coerente. La storia del film necessita della conoscenza pregressa della Storia di una nazione: siamo nel 1998 a Nalchik, capitale della Repubblica di Kabardino-Balkaria, a cavallo fra le due guerre cecene. Per quanto ben integrata, la comunità ebraica locale preferisce non dare nell’occhio, restare in disparte e risolvere le cose al suo interno. L’incubo in cui sprofonda la famiglia della giovane Ilana assume dunque connotati ancora più torbidi: suo fratello e la sua ragazza vengono rapiti, e la richiesta di riscatto è altissima. Che fare? Impossibile rivolgersi alle autorità, impossibile trovare una soluzione che non contempli il sacrificio e la perdita della dignità. La fitta tela ordita dal demiurgo Balagov imbriglia il nucleo familiare protagonista e noi spettatori, complice il formato 4/3 che rinchiude e aumenta il senso di claustrofobia.

Filippo Zoratti

Cinema

55. Vienna International Film Festival Viennale 2017

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55. Vienna International Film Festival Viennale 2017

di Filippo Zoratti
 

Dedicato alla memoria di Hans Hurch, storico direttore della Viennale prematuramente scomparso a luglio a causa di un attacco di cuore e figura cruciale della cultura austriaca, il Vienna International Film Festival 2017 conferma la propria natura di showcase onnicomprensivo e capillare, capace di indagare la Settima Arte a 360° senza snobismi di sorta. Il ricchissimo programma della 55a edizione parte come hans-hurchsempre dalla selezione ufficiale – che non è una gara, non c’è competizione – composta dai migliori titoli visti nei festival internazionali durante l’anno: dai veneziani “The Shape of Water” e “Downsizing” ai cannensi “120 battiti al minuto” e “The Day After”, dai berlinesi “On the Beach at Night Alone” e “Golden Exits” agli svizzeri (passati cioè a Locarno) “La telenovela errante” e “Nothingwood”. In mezzo scorrono i piccoli/grandi casi cinematografici di cui si è molto parlato in questi mesi – su tutti il cinese “I Am Not Madame Bovary”, l’americano “A Ghost Story”, il franco-belga “Grave – Raw ”, il tedesco “Licht” – e soprattutto la consueta babele di sottosezioni, retrospettive, special programs e tributi. Nell’impossibilità di riassumere tutta la variegata proposta (a meno di non cedere alla banalità dell’elenco) vale forse la pena affrontare brevemente quelli che sono i focus più anomali e imprevedibili, fiori all’occhiello di una kermesse che segue e ha sempre seguito una propria personale analisi dell’audiovisivo. A partire dalla sezione “Napoli! Napoli!”, incentrata sulle opere contemporanee partenopee. Trovano qui asilo le “Appassionate” di Tonino De Bernardi (evento nell’evento, considerando la carriera underground dell’autore torninese), “L’uomo in più” di Sorrentino e buona parte della produzione di Pappi Corsicato, Mario Martone e Antonio Capuano. Tra il più facilmente inquadrabile omaggio a Christoph Waltz – special guest dell’edizione – e la conferma del cosiddetto “Analog Pleasure” che riporta l’attenzione sui

Christoph Waltz

Christoph Waltz

formati desueti in via di estinzione causa avvento del digitale (qui spiccano le scelte di “The Master” di Paul Thomas Anderson, girato in 70mm, e del capolavoro “L’intendente Sansho” di Kenji Mizoguchi) ci sono multiversi da scoprire e moltitudini da sondare. Spazio dunque a nomi pressoché sconosciuti al pubblico italiano: il fotoreporter e regista francese Raymond Depardon, l’attrice austriaca Carmen Cartellieri (in attività per soli 10 intensi anni, dal 1919 al 1929) e l’artista sperimentale tedesco Heinz Emigholtz (di cui saranno proiettati anche gli ultimi lavori “Brickels – Socialism” e “2+2=22”). A chiudere il paniere la consueta mega-retrospettiva del Filmmuseum, che proseguirà la sua corsa anche a Viennale finita (fino al 30 novembre): tocca a “Utopia and Correction”, analisi del cinema sovietico dal 1926 al 1977. Quasi non annunciato infine, nascosto fra le righe come una serata a sorpresa post-festivaliera, il tributo a George A. Romero, con la proiezione del restauro di “La notte dei morti viventi” preceduta dalla performance musicale/teatrale “The Visitor” di Lawrence English. A costo di dire un’ovvietà o di abbandonarsi ad una facile frase fatta: anche quest’anno alla Viennale c’è l’imbarazzo della scelta.

Filippo Zoratti

Cinema

Far East Film Festival 19 – FEFF 2017

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Seconda parte: Cinematografie minori… a chi?

di Filippo Zoratti
 

Se è vero che un ventennio di Far East Film Festival ha permesso al pubblico di approfondire la conoscenza di alcune cinematografie “maggiori” fino a quel momento pervenute a singhiozzo (in Cina non c’è solo Zhang Yimou, in Corea del Sud non c’è solo Kim Ki-duk), è altrettanto indiscutibile che l’evento friulano anno dopo anno ci ha fatto scoprire nazioni che – oggettivamente – non immaginavamo neppure avessero una loro Storia (di celluloide, s’intende). Ora, con maggior cognizione di causa, sappiamo che le opere giapponesi sono quelle che si avvicinano di più al gusto occidentale (nel bene e nel male); che la Cina, a causa della forte censura, è abilissima nel mettere in scena drammi iperrealisti che rimandano spesso ad “altro” (una velata critica verso le istituzioni, il trionfo di un individuo nel Paese in cui l’individuo è quasi per legge invisibile); che Hong Kong, in quanto “succursale” cinese, galoppa più a briglia sciolta verso l’action a rotta di collo e l’intrattenimento puro. Ma l’Asia, eterna miniera di scoperte, è destinata a continuare a sorprendere. In questi lustri sono finiti sotto i riflettori anche mondi

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Mattie Do

alieni, che mai avremmo immaginato tali. Chi avrebbe mai sospettato che la Malesia, ad esempio, fosse così amante del cinema di genere? Pellicole quali “Kala Malam Bulan Mengambang” (omaggio al noir), “Zombi Kampung Pisang” (dedicato ai morti viventi) e “Mrs K” (grindhouse western comedy, nella definizione del programma FEFF 2017) sono sì risultati bizzarri, persino imbarazzanti, ma dicono moltissimo di un Paese e delle sue aspirazioni, della tensione verso la modernità e la globalizzazione. L’edizione numero 19 ospita per la prima volta un lavoro proveniente dal Laos: “Dearest Sister” è – non è un eufemismo – il decimo film nella Storia della Repubblica Popolare sud-est asiatica, e già questa nota aumenta a dismisura la curiosità verso uno Stato che può permettersi di produrre cinema solo in co-produzione con l’estero (nel caso del film di Mattie Do con Francia ed Estonia).

Die Beautiful

Ci sono nazioni che pian piano si affermano, ed altre che con lo scorrere dei decenni riducono la loro importanza, quasi fino a sparire. Un esempio della prima categoria sono senza alcun dubbio le Filippine, accolte quasi con scherno dal pubblico nei primi anni di kermesse (operine come “D’Anothers” e “Agent X44”, seppur al netto del loro ostentato spirito parodico, non avrebbero potuto convincere del contrario) e ora invece al centro di un rinascimento che non riguarda solo Lav Diazè e Brillante Mendoza, ma anche il prolifico e pop Erik Matti (“The Arrival”, “Honor Thy Father”) e alcune nuove leve che non possiamo non considerare (“Die Beautiful” di Jun Robles Lana è uno dei titoli di punta di questa annata).

A perdere terreno invece, è in modo sempre più evidente la Tailandia, il cui ultimo acuto è stato “13 Beloved” (Far East 2007). Poi, l’involuzione artistica ha preso il sopravvento, tra presunti horror-ghost-dramas replicanti e la presenza schiacciante del campione Apichatpong Weerasethakul (detto Joe, per amore di brevità), Palma d’Oro a Cannes 2010 con “Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti”. La forbice dei nuovi Paesi da conoscere si allarga: quale sarà – dopo il Laos – il nuovomondo da esplorare nel 2018?

Filippo Zoratti

Cinema

Torino Film Festival 31^ edizione

 TFF 2013 Prima Puntata: Virzì, atto primo

 di Filippo Zoratti

Come sarà il Torino Film Festival del neo-direttore artistico Paolo Virzì? Sarà tradizionalista o più apertamente pop? Ricalcherà il segno lasciato dai predecessori Nanni Moretti e Gianni Amelio o sterzerà verso una visione dell’industria Cinema più simile alla cultura e allo stile del regista livornese? Chi, nei giorni precedenti all’inizio della kermesse, ha cercato di “leggere” il ricchissimo programma interpretandone i segni, s’è trovato davanti una quantità – e qualità – di sollecitazioni di non immediata e univoca comprensione. Lui, il cineasta divenuto a sorpresa responsabile artistico, sembra mettere subito le mani avanti: “Voglio capire come andrà questa edizione, e poi decidere se continuare o meno. Dopotutto, fare il direttore non è il mio mestiere”. Del resto, smuovere la fortissima e consolidata identità di un evento come quello torinese (che per regolamento accetta in gara solo opere prime e seconde) non è impegno da poco. E non è da poco neanche mettere a frutto i “soli” due milioni e 400 mila euro di budget. Il primo colpo d’occhio è tutto per la titanica retrospettiva sulla New Hollywood, talmente articolata da durare due edizioni: da “Gangster Story” a “L’ultimo spettacolo”, da “Easy Rider” ad “Un uomo da marciapiede”, fino a “Woodstock” e “Pat Garrett e Billy the Kid”. Il piatto è ricchissimo (36 titoli) e Virzì non nasconde la sua emozione nel poter presentare sotto la sua egida le opere che hanno segnato la propria generazione. Torino conservatrice quindi? Mica tanto, dato che dall’altra parte della barricata spunta la nuova sezione “Big Bang Tv”, dedicata alla davvero non più trascurabile serialità televisiva. Dopo Venezia, Cannes e Sundance, anche il TFF si apre a miniserie e pilot d’autore: “House of Cards”, prodotta da David Fincher e interpretata da un luciferino Kevin Spacey; “Top of the Lake”, scritta da Jane Campion; “Southcliffe”, lavoro britannico già passato a Toronto. L’idea di fondo è quella di mantenere viva l’anima più cinefila insita nel dna della manifestazione, aprendo però all’innovazione tecnologica e all’entertainment vivace, come dimostra anche la scelta del film di apertura, ricaduta sul goliardico “Last Vegas”. La trentunesima edizione (ancora nelle parole del direttore) sulla carta si propone come un unico grande film fatto di voci diverse. Tantissime voci – pure troppe? – considerando l’importanza delle sezioni “Festa Mobile”, che per qualcuno è il vero concorso, e “Onde”, che ospiterà fra gli altri il vincitore del Festival di Locarno “Storia della mia morte” di Albert Serra, “Hotel del l’Univers” di Tonino De Bernardi e l’ormai imprescindibile cinematografia greca, con “Luton” e “To the Wolf”. E la gara ufficiale? C’è, ma come ogni anno corre forse il rischio di restare schiacciata dal resto delle proposte. L’attesa più significativa è per l’esordio alla regia di Pif, “La mafia uccide solo d’estate”, ma gli sguardi sono anche puntati sul già favorito “La battaglia di Solferino”, sullo spagnolo “L’infestazione – The Plague” e su “Pelo Malo”, vincitore dell’ultimo Festival di San Sebastian. A riunire tradizione e innovazione dunque c’è uno spirito vivace e aperto alle contaminazioni, che addirittura comprenderà spettacoli di strada e concerti, con la BandaKadabra che suonerà per la città. Torino sembra muoversi all’opposto dell’acerrima nemica Roma, che con Marco Muller pare aver intrapreso un nuovo percorso più “serio” e compito. Virzì porta al Torino Film Festival una ventata di leggerezza (che non significa superficialità) e vitalità. Un ottimo proposito, che tuttavia non deve assolutamente mettere in secondo piano il cuore pulsante dell’evento: i film.

Filippo Zoratti