Monthly Archives: novembre 2016

Cinema videomaker

54. Vienna International Film Festival – Viennale 2016

Del meglio del nostro meglio: 5 colpi di fulmine

di Filippo Zoratti

1) “The Happiest Day in the Life of Olli Mäki”, Finlandia 2016, di Juho Kuosmanen
A fare la storia sono davvero i vincitori? “The Happiest Day in the Life of Olli Mäki” – vincitore a sorpresa dell’Un Certain Regard a Cannes 2016 – narra di un gentile e innamorato perdente, che si caccia in una scommessa più grande di lui. Seguendo la tragicomica avventura di un panettiere di Kokkola, suo malgrado pugile e campione d’Europa nella categoria dilettanti che nel 1962 ha la chance di combattere per il titolo dei pesi piuma, Kuosmanen disegna una commedia umana che ricorda i microcosmi disincantati e grotteschi di Aki Kaurismaki. Tutto ciò che circonda il protagonista è anomalo, trasognato, ai confini del nonsense, perché filtrato dal suo punto di vista. La regia sobria ed elegante smonta qualunque afflato epico e competitivo: nelle sessioni di allenamento (così come nel fulmineo incontro per il titolo) non c’è climax, il ritmo è tutto concentrato sulla quotidianità di Olli e sulla sua surreale vita. “Olli Mäki” è la proposta della Finlandia ai prossimi Oscar, in lizza per il Miglior Film Straniero. E se questa favola, pervicacemente opposta all’american dream, facesse breccia nei cuori della giuria?

2) “Daft Punk Unchained”, Francia/Gran Bretagna 2015, di Hervé Martin-Delpierre
“Una cricca di giovani teppisti”. La storia dei Daft Punk inizia così, con una poco lungimirante recensione che il gruppo formato da Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter trasformerà – come loro solito – in oro. Dal 1993 quello dei Daft Punk diventa un marchio indelebile della musica elettronica. “Daft Punk Unchained” è un film alla ricerca di una aneddottica credibile, che renda plausibile l’incontro fra mito e realtà: dai ricordi di Michel Gondry, che sostiene che la nascita degli imprescindibili caschi derivi dalla realizzazione del video di “Around the World”, alla testimonianza di Nile Rodgers, che strimpellando alcune note alla chitarra ha gettato casualmente le basi per “Get Lucky”. Ma quello di Martin-Delpierre è anche un film di interventi e testimonianze, spesso acute (Pete Tong, Pharrell Williams e Giorgio Moroder su tutti). Considerando che i due componenti della band fanno l’impossibile per alimentare l’alone di leggenda attorno al loro lavoro, a “Daft Punk Unchained” non si può chiedere troppo, e in fondo ne siamo felici: buona parte dell’enigma risiede nello spirito ludico della coppia. I robot devono rimanere robot, e noi dobbiamo accettare le regole del gioco.

3) “El castillo de la pureza”, Messico 1972/1973, di Arturo Ripstein
Gabriel Lima, padre austero e bipolare, è determinato a salvare la propria famiglia dai mali del mondo nell’unico modo che gli sembra plausibile: rinchiudendoli fra le quattro mura della magione di sua proprietà. Lui è l’unico a poter uscire, mentre i tre figli e la moglie possono muoversi solo da una stanza all’altra del “castello”, all’occorrenza puniti per un tempo deciso dal loro dio/aguzzino. Se vi sembra di aver già sentito questa trama… bé, è così: “El castillo de la pureza” ha ispirato i titoli più rappresentativi della New Weird Wave greca, “Dogtooth” di Yorgos Lanthimos e “Miss Violence” di Alexandros Avranas (che, tuttavia, hanno sempre negato). Al netto di alcune significative differenze e di una diversa metaforizzazione, la grottesca conclusione è la medesima: quella del sonno della ragione che genera mostri, nell’ironica creazione di un inferno domestico di un uomo che vuole salvare i suoi cari dall’inferno del mondo esterno. Anche se ora guarderemo con occhi più scettici la natura derivativa di un’onda greca che ci era parsa orginale, inedita, genuina. E che invece era già stata raccontata (meglio) quasi quarant’anni prima.

4) “Homo Sapiens”, Austria 2016, di Nikolaus Geyrhalter
Tra i film che hanno fatto più discutere l’ultima Berlinale (purtroppo non in concorso ma nella sezione collaterale Forum), “Homo Sapiens” è una successione di immagini che potrebbero essere state prese da un film di fantascienza ambientato sul pianeta Terra dopo l’apocalisse. E invece il protagonista è il mondo devastato di oggi, o meglio è l’uomo e la scellerata distruzione di cui è inopinatamente capace. Palazzi abbandonati, cinema, scuole, prigioni, parchi divertimento: al centro della cinepresa di Geyrhalter c’è l’abuso che l’homo sapiens – appunto – impone alla natura, senza dialoghi e movimenti di macchina. Una serie impietosa di tableaux vivants dal terribile impatto visivo, ai quali non è necessaria alcuna introduzione. Un prodotto poetico che dimostra come, oltre al sempre ottimo Ulrich Seidl e al suo spaventoso cinema voyeuristico, la cinematografia austriaca sia viva e lotti insieme a noi. E lo stesso discorso vale per l’introspettivo e minimale “Kater”, thriller dell’anima e punta di diamante della Viennale 2016. Ci saremmo aspettati che uno dei due fosse il candidato austriaco ai prossimi Oscar; e invece la scelta è caduta sul forse più internazionale (ma altrettanto trascurabile) “Stefan Zweig, Farewell to Europe”.

5) “La larga noche de Francisco Sanctis”, Argentina 2016, di A. Testa e F. Marquez
Nel corso dei 78 tesissimi minuti di “La larga noche de Francisco Sanctis” non succede nulla, o quasi. Quella del protagonista è una notte da incubo perché, durante gli anni della dittatura militare argentina che va dal 1976 al 1983, finisce suo malgrado in possesso di informazioni sovversive e segrete su di una giovane coppia “desaparecida”. Francisco convive con la dittatura, pur ovviamente non amandola, ma a quel punto dovrà necessariamente fare i conti con la possibile disintegrazione della sua anonima ma sicura vita da impiegato con moglie e figli. Il personaggio non ci viene introdotto, quanto e se credere all’estraneità di Francisco lo dobbiamo decidere noi; di sicuro siamo partecipi della sua notte vagabonda per le strade di Buenos Aires, a caccia di qualcuno a cui “scaricare” la patata bollente per poter infine finalmente tornare a casa. Ma se la sua ricerca avrà successo non è dato sapere: il film – tratto da un romanzo di Humberto Costantini – si ferma magistralmente all’apice del climax, lasciandoci sospesi in un’atmosfera di soffocamento quasi insostenibile, e quasi certi che la rabbiosa frustrazione dell’impaurito Sanctis sia sul punto di esplodere.

Filippo Zoratti

Cinema

54. Vienna International Film Festival – Viennale 2016

Il cinema della verità, la verità del cinema

di Filippo Zoratti

Idealmente introdotta dal – non irresistibile – trailer del festival “Cinéma Vérité” diretto da Klaus Wyborny (regista d’avanguardia tanto conosciuto e apprezzato in Germania e Austria quanto carneade nel resto d’Europa) la sezione dedicata ai documentari è stata la più efficace a delineare solidi percorsi di senso e contenuto, all’interno del ricco paniere di programmi speciali, focus e retrospettive proposto come ogni anno dalla Viennale. È nel discusso “Homo Sapiens” di Nikolaus Geyrhalter che possiamo forse individuare l’ariete da sfondamento del gruppo (sono ben 70 le pellicole proiettate), successione di immagini che potrebbero essere state prese da un film di fantascienza ambientato sul pianeta Terra dopo l’apocalisse. E invece il protagonista è il mondo devastato di oggi, o meglio è l’uomo e la scellerata distruzione di cui è inopinatamente capace. Palazzi abbandonati, cinema, scuole, prigioni, parchi divertimento: al centro della cinepresa di Geyrhalter c’è l’abuso che l’homo sapiens – appunto – impone alla natura, senza dialoghi e movimenti di macchina. Una serie impietosa di tableaux vivants dal terribile impatto visivo, ai quali non è necessaria alcuna introduzione. Una presa di coscienza che è anche un monito, e questo ci sembra uno dei fil rouge più evidenti della selezione, attraversato da altri “incubi” di differente collocazione geografica ma portatori del medesimo messaggio: come “Eldorado XXI”, che racconta le condizioni di vita dei lavoratori di una miniera d’oro nel sud-est del Perù; o come “Furusato”, amara ricognizione di ciò che è rimasto a Fukushima dopo il disastro – terremoto più tsunami – che ha portato a quattro devastanti esplosioni nella centrale nucleare omonima. Da un lato il cammino di auto-distruzione degli esseri umani, stravolti dall’illusione dell’arricchimento a scapito di un ambiente sfruttato senza soluzione di continuità; dall’altro una riflessione sui pro e i contro della corsa al progresso, spesso più importante dei rischi e dei sacrifici legati ad essa. E al centro l’uomo, incapace di controllare se stesso e di ragionare sulle conseguenze delle proprie azioni. Dall’universale al particolare, il “cinema della verità” può essere declinato anche attraverso le istanze del biopic, dell’istantanea biografica e celebrativa di personaggi che a modo loro hanno fatto la storia o hanno contribuito a renderla migliore. Personalità riconosciute all’unanimità o destinate a lavorare sottotraccia, e quindi per questo persino più interessanti: se Joao Botelho fotografa l’arte di Manoel de Oliveira con “The Cinema, Manoel de Oliveira and me”, Salomé Jashi riprende in “The Dazzling Light of Sunset” le avventure dei giornalisti georgiani Dariko e Kakha, uniche fonti d’informazione nella remota città di Tsalenjikha; se Hervé Martin-Delpierre ricostruisce la mitologica carriera dei Daft Punk in “Daft Punk Unchained”, Maya Abdul-Malak (“Des hommes debout”) omaggia l’anonimo proprietario di un call shop a Parigi, piccola patria per gli immigrati mediorientali che grazie alle tre cabine telefoniche del locale possono chiamare i loro lontani familiari. Le visioni non filtrate del documentario ci condannano, palesando con l’inconfutabilità della ripresa “reale” la nostra limitatezza; ma al contempo ci salvano, ricordandoci quanto e cosa siamo capaci di costruire artisticamente e umanamente. Ancora una volta ci chiediamo (magari di fronte all’”Austerlitz” di Sergei Loznitsa): esiste testimonianza migliore della verità offerta dal cinema?

Filippo Zoratti