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Mostra del Cinema di Venezia 2020 – Venezia 77 La ripartenza è un atto di fede

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Mostra del Cinema di Venezia 2020 – Venezia 77
La ripartenza è un atto di fede

di Filippo Zoratti

Dice bene il neo-presidente della Fondazione Biennale di Venezia, Roberto Cicutto, quando afferma che la Mostra 2020 è stata «Un atto di fede». Venezia 77 ha dimostrato che si può vivere il cinema rispettando delle regole, forse scomode, ma necessarie. I 9 punti di accesso, i termoscanner, l’obbligo di mascherina e gli ingressi contingentati (e solo su prenotazione, elemento che ha permesso di eliminare praticamente in toto le code) sono stati i dazi da pagare per entrare nella cittadella del cinema al Lido e abbandonarsi alle immagini in movimento e ai rituali commenti post-proiezione, abbozzando qua e là – tra addetti ai lavori, giornalisti e semplici appassionati – il classico toto-Leoni.

E fin dalla prima proiezione stampa è apparso subito chiaro ai più come “Nomadland” di Chloé Zhao (già regista dell’apprezzato “The Rider – Il sogno di un cowboy”) avesse la giusta marcia in più per avere la meglio sui restanti 17 titoli del concorso. Non tanto per la bellezza in sé di soggetto, sceneggiatura e realizzazione, quanto per una serie di caratteristiche extra-filmiche che sembrano diventate negli ultimi anni principi fondanti da seguire. Il Leone d’Oro, anzitutto, sembra debba per forza essere un’opera non “divisiva”; ovvero quella che mette d’accordo più persone possibili, quella meno scomoda e che strizza l’occhio alla grande distribuzione e, possibilimente, agli Academy Awards.

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Il compito dei festival, tra nomadi e spie

L’ultimo lustro parla chiaro: dopo l’irricevibile Lav Diaz del 2016 (vincitore con “The Woman Who Left”), sul gradino più alto sono finiti “Roma” di Cuarón, “La forma dell’acqua” di del Toro, “Joker” di Todd Phillips. Tutte pellicole poi – chi più, chi meno – oscarizzate, così come sembra ora spianata la via a “Nomadland”, in virtù della sua protagonista Frances McDormand, del suo argomento di stringente attualità (si narra di una donna che ha perso marito e lavoro durante la Grande Recessione economica del 2008, e che decide di vivere come una nomade moderna al di fuori delle convenzioni sociali), e della sua regia d’autore. Non a caso Hollywood ha già puntato gli occhi su Chloé Zhao, ben prima della Mostra: sarà lei a dirigere uno dei prossimi film Marvel, “The Eternals”, previsto per il 2021.

Si apre dunque la solita voragine “morale”: ma il compito dei festival, esattamente, qual è? Impalmare l’ovvio o andare a caccia del nuovo, scommettendo sui talenti del futuro? Venezia 77 ci racconta una storia fatta principalmente – si perdoni il termine non propriamente elegante – di “cerchiobottismo”: dopo anni di appannamento mediatico la soluzione è parsa quella di un ripiegamento verso il cinema pop, una sorta di “operazione simpatia” (altra espressione orrenda) per riavvicinarsi al grande pubblico. Tutto ciò cercando anche, laddove possibile, di consacrare per primi nomi mai altrove premiati (Kim Ki-duk e “Pietà” nel 2012, Konchalovsky e “Le notti bianche del postino” nel 2014, Kiyoshi Kurosawa e “Wife of a Spy” Leone d’Argento in questa edizione), stabilendo un’ideale “diritto di prelazione”.

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La nuova identità del cinema

Va altresì considerato come il compito della giuria, quest’anno, fosse quanto mai delicato e spinoso. All’inizio del festival, la presidentessa di giuria Cate Blanchett si era espressa in un perentorio «Dobbiamo essere coraggiosi!». E proprio quello del coraggio sembra essere un tema che continuerà ad essere centrale anche nel prossimo futuro, di qualunque evento culturale si tratti e a qualunque latitudine. Sembrano passati anni, e invece si tratta di una manciata di mesi: a febbraio Berlino aveva scampato di poco il lockdown, riuscendo a chiudere i battenti il 1° marzo con l’Orso d’Oro all’iraniano “There Is No Evil”; a maggio Cannes si era dovuta arrendere all’evidenza, annullando l’evento per la prima volta dal 1950 e annunciando lo stesso una selezione ufficiale non competitiva i cui film hanno ricevuto comunque il marchio del festival. A Venezia è spettato dunque un arduo e pionieristico compito, che ha molto a che fare con il coraggio, l’incoscienza e la fede espressa da Cicutto. Se questa sia la vera ripartenza saranno i mesi a venire a dircelo, anche e soprattutto con la distribuzione in sala.

Le polveri della nuova stagione cinematografica sono infatti bagnate, tra un “Tenet” pigliatutto, un “Mulan” in live action che la Disney ha preferito rendere disponibile direttamente in streaming senza passare per i multisala e qualche raro esempio di film veneziano gettato nella mischia dei cinema, per vedere l’effetto che fa. Storicamente le pellicole presentate alla Mostra escono quasi in contemporanea in sala, per sfruttare l’onda mediatica. Quest’anno, però, i distributori sembra non sappiano davvero che fare. Solo gli italiani “Molecole” di Segre, “Notturno” di Rosi e “Non odiare” di Bruno Mancini sono stati regolarmente distribuiti. Mentre – ad esempio – “Pieces of a Woman” di Mundruczó (prodotto da Scorsese) è stato acquistato da Netflix. Bisogna entrare in una nuova ottica: la sfida non è più quella tra cinema al cinema e cinema a casa, tra visioni “belle” su megaschermi con audio Dolby Atmos e visioni “brutte” sui 13 pollici del proprio pc; l’obiettivo è che di cinema si possa ancora continuare a parlare, in qualsiasi forma e su qualsiasi supporto, accettando le nuove regole del gioco.

Tutti i premi di Venezia 77

  • LEONE D’ORO per il miglior film a “Nomadland” di Chloé Zhao

  • GRAN PREMIO DELLA GIURIA a “Nuevo orden” di Michel Franco

  • LEONE D’ARGENTO per la miglior regia a “Wife of a Spy” di Kiyoshi Kurosawa

  • PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA a “Dear Comrades” di Andrey Konchalovsky

  • COPPA VOLPI per l’interpretazione femminile a Vanessa Kirby (“Pieces of a Woman”)

  • COPPA VOLPI per l’interpretazione maschile a Pierfrancesco Favino (“Padrenostro”)

  • PREMIO OSELLA per la migliore sceneggiatura a Chaitanya Tamhane (“The Disciple”)

  • LEONE DEL FUTURO – MIGLIOR OPERA PRIMA a “Listen” di Ana Rocha de Sousa

  • PREMIO ORIZZONTI per il miglior film: “The Wasteland” di Ahmad Bahrami

  • PREMIO SETTIMANA DELLA CRITICA a “Ghosts” di Azra Deniz Okyay

  • PREMIO GIORNATE DEGLI AUTORI a “200 Meters” di Ameen Nayfeh

Filippo Zoratti

Cinema

Far East Film Festival 20

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FEFF 2018 – Tutti i vincitori

 
di Filippo Zoratti
 

Con 81 film proiettati (di cui 55 in concorso), eventi collaterali da tutto esaurito (Casa Ramen in cima alla lista, ma anche la Chinatown allestita in centro città e l’ormai abituale Cosplay Contest) e workshop rinnovati e ampliati (Ties That Bind, confronto annuale sul mercato che lega Oriente e Occidente arricchendo entrambe le parti), il Far East Film Festival numero 20 ha chiuso i battenti sabato 28 aprile celebrando la vittoria di “1987: When the Day Comes” e già mettendo le mani avanti per l’anno prossimo: quale sarà il nuovo filone aurifero da scandagliare? Le serie tv (coreane e giapponesi, presumibilmente), oltre all’approfondimento delle produzioni Netflix/Amazon già iniziato in questa edizione. Un occhio al pubblico che ha reso forte e importante la kermesse e un occhio ai “nuovi spettatori” del futuro, una rivoluzione già iniziata con il palmares dei vincitori di quest’anno, abile sintesi di cinema impegnato ed intrattenimento più leggero e popolare Ecco a voi la lista dei premiati.

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Gelso d’Oro – 1987: When the Day Comes (Corea del Sud, 2017)1987

Vince un film coreano, e più in generale vince il cinema coreano: le opere provenienti dalla penisola asiatica sono state le più amate e le più applaudite, a sancire una sorta di sorpasso nei confronti del Giappone (storicamente, la nazione più cinematograficamente vicina al gusto occidentale). “1987” è una pellicola d’impegno rigorosa e necessaria, dedicata al movimento studentesco che si è opposto al regime di allora e alla sua sanguinosa repressione. Guardando il lavoro di Jang Joon-hwan – e il documentario gemello “Courtesy to the Nation” – si sente l’eco di vicende a noi familiari: quella di Stefano Cucchi e quella di Giulio Regeni. Una comunanza e una vicinanza premiata – giustamente, viste anche le qualità di scrittura e recitazione – dal pubblico con una media voto altissima: 4,596 (su un massimo di 5). Vincitore – oltre che col Gelso d’Oro – anche del Black Dragon Award.

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2° posto – One Cut of the Dead (Giappone, 2018)one_cut

Plebiscito e ovazioni in sala per l’irresistibile film sorpresa dell’edizione, proiettato a mezzanotte senza alcun tipo di aspettativa iniziale tra lo stupore della platea. “One Cut of the Dead” è una horror-comedy incentrata su una troupe cinematografica che sta girando uno zombie movie in una fabbrica abbandonata. Un film nel film (nel film!) impreziosito da un piano sequenza iniziale di ben 37 minuti. La fantasia è più forte del denaro, per una volta è vero: questa piccola opera girata in economia è una esplosione di creatività che trasuda amore per la Settima Arte invitando lo spettatore ad un gioco consapevole e attivo. Un vincitore mancato, considerato che la sua media voto è di 4,589 (solo 0,007 punti in meno rispetto a “1987”!), ma si tratta quasi di un parimerito: la pellicola di Ueda Shinichiro è stata senza dubbio la più amata del festival, sulla bocca di tutti anche nei giorni successivi alla proiezione.

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3° posto – The Battleship Island (Corea del Sud, 2017)battleship_island

Mega-iper-extra blockbuster “più grande del cinema”, “The Battleship Island” è l’esempio più lampante di come il cinema coreano contemporaneo necessiti – anche quando si parla di eventi storici – di budget consistenti e di una certa esuberanza produttiva per arrivare alla maggior fetta di pubblico possibile. Il film di Ryoo Seung-wan stordisce e ammalia, portandoci in un campo di prigionia giapponese nel 1944, ad un passo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Interpretazione memorabile della superstar coreana Hwang Jung-min (lo stesso di “Ode to My Father” e “You are My Sunshine”), strizzatine d’occhio al cinema mainstream Usa… e una certezza: “The Battleship Island” potrebbe essere tranquillamente distribuito e proiettato nelle nostre sale (mentre, molto probabilmente, sarà acquistato da Hollywood che ne girerà un rifacimento ad hoc).

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Gelso Bianco al regista emergente – Last Child (Corea del Sud, 2018)last_child

Introdotto per la prima volta quest’anno, il Gelso Bianco premia il miglior regista esordiente al primo o al secondo film. C’era l’imbarazzo della scelta, per la giuria creata per l’occasione (il produttore hongkongese Albert Lee, il produttore americano Peter Loehr e lo sceneggiatore italiano Massimo Gaudioso): ben 21 dei 55 titoli in concorso erano opere prime e seconde. Un autentico tesoro, da cui è emerso abbastanza a sorpresa “Last Child” del coreano Shin Dong-seok. Un dramma emozionale in cui viene messo in scena l’invisibile: il vuoto interiore insostenibile che anima i protagonisti alle prese con la tragedia di un ragazzo annegato. Avremmo forse preferito a conti fatti vedere premiato il taiwanese d’animazione “On Happiness Road”, il giapponese “One Cut of the Dead” (di cui parliamo qua sopra) o il thailandese “Bad Genius”. Ma l’assegnazione dell’award a “The Last Child” fa il paio con l’evidenza di questa edizione 20: i coreani (del sud) sono quelli che oggi esprimono il cinema più completo, interessante e “giovane”.

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MyMovies Award – The Empty Hands (Hong Kong, 2017)empty_hands

Potremmo tranquillamente ribattezzarlo “premio simpatia”: di anno in anno a vincere il MyMovies Award (assegnato con votazione on line) è l’opera che fa più presa su una certa tipologia di pubblico, al contempo forse più cinefila e sicuramente più pop. Nel 2016 trionfò “Thermae Romae II”, nel 2015 “It’s Me, it’s Me” di Miki Satoshi, nel 2009 “One Million Yen Girl”… quest’anno il più votato è stato uno dei registi/attori più conosciuti dalla platea del FEFF: Chapman To, corpo comico hongkongese che sta cercando di ritagliarsi un proprio spazio autoriale con uno stile tuttavia ancora ondivago e altalenante. Spesso il Chapman To regista non mantiene del tutto ciò che promette, e “The Empty Hands” non fa eccezione: mescolando arti marziali, momenti slapstick, parentesi riflessive e amore per la patria la messinscena stupisce ma non convince, lasciandoci alla fine un po’ – come dice il titolo del film stesso – “a mani vuote”.

 

 

Filippo Zoratti