Episodio II: La nuova bizzarra Onda greca
di Filippo ZorattiFinalmente ha un nome: New Weird Wave. Quella proveniente dalla Grecia non è solo e semplicemente una “nuova onda”, ma assume inevitabilmente i contorni della bizzarria e della sorpresa. Lo spettro della cinematografia ellenica si aggira nei festival internazionali da una decina d’anni, con la sua messinscena respingente e l’incapacità da parte della critica e degli addetti ai lavori di stabilirne in modo univoco i connotati. Non si tratta ovviamente del cinema greco “classico”: Theo Angelopoulos e Costa-Gavras nulla hanno a che fare con la nuova generazione di cineasti che filma per spiazzare, per ferire lo sguardo di chi osserva e per metaforizzare spesso in modo inquietante la quotidianità di un popolo annichilito dalla crisi. Il focus “Griechenland” propone all’interno del fitto programma della 53a Viennale un mosaico di titoli – non onnicomprensivo, ma a suo modo seminale – che hanno fatto e stanno facendo la storia moderna della Grecia. Una storia iniziata nel 2005 con “Kinetta”, e successivamente passata all’attenzione mondiale con lo sbalorditivo “Kynodontas” (conosciuto anche come “Dogtooth”, e passato in qualche rassegna italiana come “Canino”), vincitore della sezione Un Certain Regard a Cannes 2009. Entrambi i titoli – non è di certo un caso – appartengono a Yorgos Lanthimos, giovane autore che per primo ha messo su pellicola la deriva socio-culturale di una nazione ossessionata da se stessa. “Kynodontas” è un manifesto di intenti, senza se e senza ma: la vicenda paradossale e disturbante di una famiglia isolata dal mondo per volere di un padre-padrone che vieta ai suoi congiunti ogni forma di comunicazione esterna contiene tutte le ragioni di una poetica votata alla denuncia della perdita di identità, dello smarrimento del proprio ruolo nella società. I personaggi di Lanthimos e dei suoi epigoni Athina Rachel Tsangari, Alexandras Avranas e Michalis Konstantatos sono esseri straniti e stranianti che stabiliscono per loro stessi e per i propri vicini nuove assurde regole da seguire, come fossero unanimemente condivise. È ciò che succede ad esempio nel film che apre idealmente la rassegna viennese, “The Lobster”, in cui gli esseri umani da troppo tempo single vengono tramutati in animali. Distopia? Mondi futuribili? Non esattamente: tutto avviene in microcosmi simili se non uguali alla nostra realtà, in cui nessuno capisce più chi vuole o deve essere. Le opere scelte per “Griechenland” sono tutte riconducibili a queste caratteristiche, ad una urgenza narrativa che non può più essere rimandata: fra i 10 lungometraggi proposti spiccano “Bathers” di Eva Stefani, “A Woman’s Way” di Panis H. Koutras, “Boy Eating the Bird’s Food” di Ektoras Lygizos e l’etnografico “To the Wolf” di Christina Koutsospyrou. La stramba Nouvelle Vague ellenica – che più che ad una primavera fa pensare ad un’istantanea disperata – procede compatta e silenziosa, incappando certamente anche in risultati meno convincenti dettati dalle richieste di mercato. Ma è chiaro per tutti: siamo di fronte al più interessante e stimolante prodotto cinematografico europeo degli ultimi lustri, quello che ha fatto della propria stringente necessità una raffinata virtù. Da questo punto di vista il lavoro svolto dal Vienna International Film Festival, primo a tirare coraggiosamente le somme di una tendenza sotto gli occhi di tutti ma mai limpidamente messa a fuoco, non può che definirsi pionieristico.
Filippo Zoratti