Mostra del Cinema di Venezia 2022 – Venezia 79 Barbera, la Cura Ludovico e i Leoni americani
di Filippo Zoratti
Ragioniamo a voce alta: la Mostra del Cinema di Venezia è arrivata alla sua 79a edizione, anche se sulle locandine e sul programma campeggia anche un bel “90°”. I 90 anni sono quelli della Biennale, e difatti il primissimo festival risale al 1932 (ancora non competitivo in quanto senza giuria, e svoltosi interamente sulla terrazza dell’Hotel Excelsior di Venezia Lido). Alcune annate, poi, si sono perse nel tempo, con una manciata di sospensioni dettate dalla guerra, dall’economia e anche da decisioni di natura politica. 79 concorsi ufficiali, quindi. Dal 1946 al 2004 (58 anni) gli Stati Uniti hanno vinto solo 4 volte, due delle quali con registi francesi – Jean Renoir e Louis Malle – che avevano semplicemente prodotto i loro film negli States. Poi il vento è cambiato: dal 2005 al 2022 (17 anni) le opere americane hanno trionfato per ben 8 volte. Una statistica interessante, utile per un paio di riflessioni: quello della Mostra, fino ad un certo punto della sua vita, è stato un lavoro di ricerca e di continua scoperta; scoperta di nuove cinematografie, di nuovi percorsi internazionali, verso l’India e la Cecoslovacchia, l’Unione Sovietica e il Giappone. Gli Usa potevano stare tranquillamente a guardare, già ampiamente rappresentati naturalmente dagli Oscar. La contrapposizione era piuttosto marcata: da una parte, l’Academy e il suo gigantismo, con l’autopromozione dell’industria pop; dall’altra, una manifestazione essenzialmente d’essai, volta al cinema del futuro (cinema spesso anche invisibile, e quindi meritevole di maggiore attenzione).
Il punto di rottura è arrivato probabilmente con “The Wrestler”, nel 2008: quella che fino a pochi anni prima sarebbe stata salutata come una scelta persino “esotica”, buona per una campagna promozionale ad ampio raggio, vince invece clamorosamente il Leone d’Oro. La Mostra cambia ufficialmente sembianze, più o meno in corrispondenza del secondo mandato di Alberto Barbera, chiamato in modo abbastanza palese a ridare lustro e importanza ad una kermesse divenuta troppo “cinefila” (sembra un controsenso, non lo è) a causa delle scelte dell’amato/odiato predecessore Marco Müller. Il festival diventa così un incubatore di successi preannunciati: “La forma dell’acqua” (2017), “Joker” (2019), “Nomadland” (2020) sbancano Venezia e sono anche i titoli di punta dei successivi Oscar. Anche quest’anno ha vinto un titolo a stelle e strisce, premiato da una giuria capitanata da un’attrice statunitense: nei febbrili giorni festivalieri si vociferava di una Julianne Moore in lacrime, al termine della proiezione di “All the Beauty and the Bloodshed” di Laura Poitras. Nessuno ci aveva voluto credere, e il borsino dei favoriti dava piuttosto tra i papabili “Gli orsi non esistono” di Panahi (poi Premio Speciale), “Saint-Omer” di Alice Diop (poi Gran Premio), “The Whale” di Aronofsky (rimasto abbastanza a sorpresa a mani vuote). Nessuno, ma proprio nessuno, avrebbe puntato sulla storia della fotografa Nan Goldin, per quel malcelato snobismo generalizzato che declassa i documentari alla stregua di genere minore. Un po’ come accaduto nel 2013 con “Sacro GRA” di Gianfranco Rosi.
E invece il verdetto è sensato, del tutto condivisibile. E si rivela soprattutto contemporaneo e figlio del suo (del nostro) tempo. La Mostra del Cinema di Venezia, anche quest’anno – e in modo forse più sottile rispetto alle ultime edizioni – ha dimostrato di essere perfettamente al passo, sicuramente meglio di Berlino e Cannes. Sembra di assistere però a campionati differenti, perché ad esempio gli Orsi berlinesi continuano ad essere espressione di indagine, studio, lontano anni luce da qualunque tipo di mainstream. Ma, d’altro canto, il mainstream non va demonizzato. Andrebbe piuttosto gestito, calibrato, mescolato con altre urgenze e suggestioni. Un’accortezza che la Biennale sembra aver smarrito, o alla quale sembra comunque prestare via via sempre meno attenzione. Per dirla con Pier Maria Bocchi: «Barbera è ormai seduto in una gestazione che non è più di ricerca ma semplicemente di accettazione e consolidamento. Le sue Mostre rinforzano i matrimoni con i poteri forti, non perlustrano (più). Sostengono lo status quo, non frugano e non perquisiscono» (Cineforum.it, 13 settembre 2022). Se è vero che il festival aveva bisogno di una robusta “Cura Ludovico” per riguadagnare l’attenzione mediatica perduta, ora – a distanza di 10 anni dal restyling – inizia ad intravedersi la fine di un percorso. O, meglio, la necessità di cambiare nuovamente i propri connotati. Pena la spersonalizzazione, la perdita di identità. O peggio ancora il totale asservimento ad un’offerta convenzionale e omologata, tanto utile in termini di visibilità (ma fino a quando?) quanto rovinosa da un punto di vista artistico.
Tutti i premi di Venezia 79
– LEONE D’ORO per il miglior film a “All the Beauty and the Bloodshed” di Laura Poitras
– GRAN PREMIO DELLA GIURIA a “Saint-Omer” di Alice Diop
– LEONE D’ARGENTO per la miglior regia a “Bones and All” di Luca Guadagnino
– PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA a “Gli orsi non esistono” di Jafar Panahi
– COPPA VOLPI per l’interpretazione femminile a Cate Blanchett (“Tár”)
– COPPA VOLPI per l’interpretazione maschile a Colin Farrell (“Gli spiriti dell’isola”)
– OSELLA per la migliore sceneggiatura a Martin McDonagh (“Gli spiriti dell’isola”)
– LEONE DEL FUTURO – MIGLIOR OPERA PRIMA a “Saint-Omer” di Alice Diop
– PREMIO ORIZZONTI per il miglior film: “World War III” di Houman Seyyedi
– PREMIO SETTIMANA DELLA CRITICA a “Eismayer” di David Wagner
– PREMIO GIORNATE DEGLI AUTORI a “Lobo e Cão” di Cláudia Varejão
Filippo Zoratti