Tag Archives: Far East Film Festival

Cinema

Far East Film Festival 20

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FEFF 2018 – Tutti i vincitori

 
di Filippo Zoratti
 

Con 81 film proiettati (di cui 55 in concorso), eventi collaterali da tutto esaurito (Casa Ramen in cima alla lista, ma anche la Chinatown allestita in centro città e l’ormai abituale Cosplay Contest) e workshop rinnovati e ampliati (Ties That Bind, confronto annuale sul mercato che lega Oriente e Occidente arricchendo entrambe le parti), il Far East Film Festival numero 20 ha chiuso i battenti sabato 28 aprile celebrando la vittoria di “1987: When the Day Comes” e già mettendo le mani avanti per l’anno prossimo: quale sarà il nuovo filone aurifero da scandagliare? Le serie tv (coreane e giapponesi, presumibilmente), oltre all’approfondimento delle produzioni Netflix/Amazon già iniziato in questa edizione. Un occhio al pubblico che ha reso forte e importante la kermesse e un occhio ai “nuovi spettatori” del futuro, una rivoluzione già iniziata con il palmares dei vincitori di quest’anno, abile sintesi di cinema impegnato ed intrattenimento più leggero e popolare Ecco a voi la lista dei premiati.

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Gelso d’Oro – 1987: When the Day Comes (Corea del Sud, 2017)1987

Vince un film coreano, e più in generale vince il cinema coreano: le opere provenienti dalla penisola asiatica sono state le più amate e le più applaudite, a sancire una sorta di sorpasso nei confronti del Giappone (storicamente, la nazione più cinematograficamente vicina al gusto occidentale). “1987” è una pellicola d’impegno rigorosa e necessaria, dedicata al movimento studentesco che si è opposto al regime di allora e alla sua sanguinosa repressione. Guardando il lavoro di Jang Joon-hwan – e il documentario gemello “Courtesy to the Nation” – si sente l’eco di vicende a noi familiari: quella di Stefano Cucchi e quella di Giulio Regeni. Una comunanza e una vicinanza premiata – giustamente, viste anche le qualità di scrittura e recitazione – dal pubblico con una media voto altissima: 4,596 (su un massimo di 5). Vincitore – oltre che col Gelso d’Oro – anche del Black Dragon Award.

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2° posto – One Cut of the Dead (Giappone, 2018)one_cut

Plebiscito e ovazioni in sala per l’irresistibile film sorpresa dell’edizione, proiettato a mezzanotte senza alcun tipo di aspettativa iniziale tra lo stupore della platea. “One Cut of the Dead” è una horror-comedy incentrata su una troupe cinematografica che sta girando uno zombie movie in una fabbrica abbandonata. Un film nel film (nel film!) impreziosito da un piano sequenza iniziale di ben 37 minuti. La fantasia è più forte del denaro, per una volta è vero: questa piccola opera girata in economia è una esplosione di creatività che trasuda amore per la Settima Arte invitando lo spettatore ad un gioco consapevole e attivo. Un vincitore mancato, considerato che la sua media voto è di 4,589 (solo 0,007 punti in meno rispetto a “1987”!), ma si tratta quasi di un parimerito: la pellicola di Ueda Shinichiro è stata senza dubbio la più amata del festival, sulla bocca di tutti anche nei giorni successivi alla proiezione.

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3° posto – The Battleship Island (Corea del Sud, 2017)battleship_island

Mega-iper-extra blockbuster “più grande del cinema”, “The Battleship Island” è l’esempio più lampante di come il cinema coreano contemporaneo necessiti – anche quando si parla di eventi storici – di budget consistenti e di una certa esuberanza produttiva per arrivare alla maggior fetta di pubblico possibile. Il film di Ryoo Seung-wan stordisce e ammalia, portandoci in un campo di prigionia giapponese nel 1944, ad un passo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Interpretazione memorabile della superstar coreana Hwang Jung-min (lo stesso di “Ode to My Father” e “You are My Sunshine”), strizzatine d’occhio al cinema mainstream Usa… e una certezza: “The Battleship Island” potrebbe essere tranquillamente distribuito e proiettato nelle nostre sale (mentre, molto probabilmente, sarà acquistato da Hollywood che ne girerà un rifacimento ad hoc).

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Gelso Bianco al regista emergente – Last Child (Corea del Sud, 2018)last_child

Introdotto per la prima volta quest’anno, il Gelso Bianco premia il miglior regista esordiente al primo o al secondo film. C’era l’imbarazzo della scelta, per la giuria creata per l’occasione (il produttore hongkongese Albert Lee, il produttore americano Peter Loehr e lo sceneggiatore italiano Massimo Gaudioso): ben 21 dei 55 titoli in concorso erano opere prime e seconde. Un autentico tesoro, da cui è emerso abbastanza a sorpresa “Last Child” del coreano Shin Dong-seok. Un dramma emozionale in cui viene messo in scena l’invisibile: il vuoto interiore insostenibile che anima i protagonisti alle prese con la tragedia di un ragazzo annegato. Avremmo forse preferito a conti fatti vedere premiato il taiwanese d’animazione “On Happiness Road”, il giapponese “One Cut of the Dead” (di cui parliamo qua sopra) o il thailandese “Bad Genius”. Ma l’assegnazione dell’award a “The Last Child” fa il paio con l’evidenza di questa edizione 20: i coreani (del sud) sono quelli che oggi esprimono il cinema più completo, interessante e “giovane”.

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MyMovies Award – The Empty Hands (Hong Kong, 2017)empty_hands

Potremmo tranquillamente ribattezzarlo “premio simpatia”: di anno in anno a vincere il MyMovies Award (assegnato con votazione on line) è l’opera che fa più presa su una certa tipologia di pubblico, al contempo forse più cinefila e sicuramente più pop. Nel 2016 trionfò “Thermae Romae II”, nel 2015 “It’s Me, it’s Me” di Miki Satoshi, nel 2009 “One Million Yen Girl”… quest’anno il più votato è stato uno dei registi/attori più conosciuti dalla platea del FEFF: Chapman To, corpo comico hongkongese che sta cercando di ritagliarsi un proprio spazio autoriale con uno stile tuttavia ancora ondivago e altalenante. Spesso il Chapman To regista non mantiene del tutto ciò che promette, e “The Empty Hands” non fa eccezione: mescolando arti marziali, momenti slapstick, parentesi riflessive e amore per la patria la messinscena stupisce ma non convince, lasciandoci alla fine un po’ – come dice il titolo del film stesso – “a mani vuote”.

 

 

Filippo Zoratti

 

 

 

Cinema

Far East Film Festival 20

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FEFF 2018 La tradizione e l’innovazione

di Filippo Zoratti

20 anni. Un periodo che sembra lunghissimo, e che di fatto copre una generazione. Ma al contempo breve, sommario, per comprendere i meccanismi cinematografici di un continente come quello asiatico. 5 lustri sono stati necessari al Far East e alla sua platea per scalfire una superficie, per apprendere più o meno come funzionano le industrie di Giappone, Cina, Corea del Sud, Hong Kong, Thailandia e Filippine. Nella sua edizione numero 20 riafferma il suo statuto di festival “popolare” (aperto a tutto e a tutti, senza restrizioni di sorta), ricostruisce un pezzettino di Storia dimenticata con una manciata di retrospettive e apre al futuro. Come? Riconoscendo le nuove piattaforme cinematografiche (Netflix), sfidando la sacralità di film cult che sembravano intoccabili (e invece…) e offrendo al pubblico il solito mix di eventi extra (concerti, mercatini, cosplay contest) che non rinchiudono la manifestazione dentro le scontate quattro mura di un cinema. Ma andiamo con ordine, riassumendo le coordinate di ciò che succederà a Udine dal 20 al 28 aprile.

 

 

 

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Il futuro è già qui: Netflix!

In aperto e significativo contrasto con il Festival di Cannes, che elimina dalla propria selezione tutti i prodotti originali provenienti dal web, il FEFF programma come film di apertura… una pellicola già presente e disponibile su Netflix. Si tratta di “Steel Rain”, action coreano a rotta di collo che fa il paio con un altro titolo già ampiamente disponibile on demand: il sempre coreano “Forgotten”. Come a dire che Netflix – ormai distributore cinematografico a sé stante – non solo non deve essere fermato, ma al contrario celebrato. Ci vuole coraggio (il coraggio che il FEFF ha sempre avuto), così come ci vuole intuizione e spavalderia per chiudere il festival con un’opera indonesiana: il crudo e iperrealistico “Night Bus”. Se è vero – come è vero – che il cinema in Indonesia sta crescendo assumendo via via sostanziale fiducia nei propri mezzi, è giusto e condivisibile che questo sforza venga premiato.

 

 

 

 

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Una finestra sul mondo: i documentari

Nulla come i documentari (fiore all’occhiello del Far East già da qualche anno) permette di comprendere la realtà e la quotidianità orientale. A fare da capofila quest’anno ci pensa “Courtesy to the Nation”, che ripercorre le sanguinose rivolte studentesche avvenute in Corea del Sud a metà degli anni ’80. A questo si aggiungono due focus dedicati alla musica e al dialogo fra Oriente e Occidente: se da un lato “Sukita” racconta il rapporto di privilegiata amicizia fra David Bowie e il fotografo Sukita Masayoshi, dall’altro “Ryuichi Sakamoto: Coda” osserva il genio Sakamoto (autore delle colonne sonore di “Furyo”, “Piccolo Buddha” e “Revenant”) al lavoro. Ultimo ma non ultimo “Ramen Heads”, dedicato allo chef giapponese Tomita Osamu.

 

 

 

 

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Restauri, omaggi, retrospettive

Il paniere delle proposte (81 film, di cui 55 in concorso) è talmente ampio da permettere sia percorsi contemporanei – relativi cioè al meglio della produzione panasiatica dell’ultimo anno – che grandi recuperi del passato, nuovi piccoli tasselli di quel mosaico gigantesco che si chiama Asia. La punta dell’iceberg quest’anno è la retrospettiva dedicata a Brigitte Lin, una delle muse di Wong Kar-wai: a lei verrà consegnato il Gelso d’Oro alla carriera nella serata di sabato 21, in accoppiata con la proiezione di “Hong Kong Express”. Saranno poi 6 i classici restaurati: in cima alla lista spicca il noir “Throw Down” di Johnnie To, del 2004, a dimostrazione di come il termine “restauro” non riguardi solo film di mezzo secolo fa ma anche pellicole del recente passato.

 

 

 

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I 5 film imperdibili

È ovviamente difficile, se non impossibile, decidere a scatola chiusa quali saranno i film di punta dell’edizione. Ci si può allora affidare ai nomi già conosciuti, come garanzia. Scorrendo il programma salta subito all’occhio ad esempio la presenza del nuovo film di Feng Xiaogang, “Youth”. Già Gelso d’Oro nel 2017, Feng è all’unanimità definito “lo Steven Spielberg cinese”, per la sua capacità di mescolare respiro autoriale e dinamiche da blockbuster. C’è poi – e questo è davvero un nome inatteso – il curioso ritorno di Chen Kaige, maestro del cinema cinese Palma d’Oro a Cannes 46 con “Addio mia concubina”. Il suo “The Legend of the Demon Cat” sembra votato all’intrattenimento puro e semplice, con la sua trama fantasy tratta da un ciclo di romanzi molto amati in patria. Dalla Cina al Giappone: in gara trovano spazio anche “Mori, the Artist’s Habitat” dell’amatissimo Okita Shuichi (suoi “The Woodsman and the Rain”, “A Story of Yonosuke” e “Mohican Comes Home”, applauditi e premiati nelle scorse edizioni del FEFF) e “Yocho” di Kiyoshi Kurosawa, maestro del J-Horror (orrore più mistero più psicologia). A chiudere il cerchio degli imperdibili infine un’opera coreana campionessa di incassi: “The Blood of Wolves”, che racconta la lotta lunga quasi 20 anni fra polizia e malavita.

 

Filippo Zoratti

Cinema

Far East Film Festival 20, Teatro Nuovo Giovanni da Udine e Visionario dal 20 al 28 aprile

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Oggi alle 20 a Udine parte il Far East Film Festival 20

 

Lo spy thriller coreano Steel Rain apre la 20a edizione del Far East Film Festival!
Il viaggio nel “lontano Est” del Far East Film Festival si aprirà venerdì 20 aprile alle ore 20.00 con il super spy thriller coreano Steel Rain e il dramma malesiano Crossroads: One Two Jaga (alle ore 22.40) con la bellissima attrice Asmara che parla anche italiano!Intanto in città i led rossi di  via Mercatovecchio illumineranno lo spettacolo d’apertura dei FEFF Events. Una grande festa popolare che si aprirà venerdì 20 aprile alle  20.30 con la tradizionale  Danza del pesce e i tamburi giapponesi Taiko.

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Far East Film Festival 19 – FEFF 2017

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Terza parte: il mattino ha l’oro in bocca

di Filippo Zoratti
 

Sta iniziando a diventare un rito: per il quarto anno consecutivo a vincere il più grande festival del cinema popolare asiatico è stato il film proiettato alle 10 di mattina della prima – e unica – domenica di programmazione. 2014: “The Eternal Zero”; 2015: “Ode to my Father”; 2016: “A Melody to Remember”… e 2017 la transgender-family dramedy giapponese “Close-Knit”. Indubbiamente, una delle migliori proposte dell’edizione, già vista e apprezzata alla Berlinale di quest’anno. Una storia delicata e in punta di

I am not Madame Bovary

I am not Madame Bovary

cinepresa, incentrata su una ragazzina di 11 anni che si trasferisce dallo zio Tomio e fa la conoscenza della sua nuova compagna, la transgender Rinko. L’opera fa il paio con la proiezione del filippino “Die Beautiful”, visto nella sera di venerdì, e segna – a poco più di un mese dal primo Pride del Friuli Venezia Giulia – una piacevole presa di coscienza internazionale e mondiale: la comunità LGBT (a cui si aggiungono la Q di Queer, la I di Intersex e la A di Asessuali) non viene più cinematograficamente trattata come una macchietta, come un alleggerimento comico. Le due pellicole sopraccitate sono complete, universali, e il fatto che il variegato microcosmo del Far East – formato sia da cinefili della prima ora che da spettatori occasionali dell’ultim’ora – abbia così capillarmente accolto e compreso il valore dell’offerta ha il sapore del trionfo. Anche perché quest’anno il programma del Feff era costellato di lavori qualitativamente sopra la media: a partire dalla seconda posizione, il bowling drama “Split”, che conferma la capacità coreana di intercettare le grandi platee e di

Mad World

Mad World

dar vita a drammaturgie autoriali e

autorevoli. Fra i pezzi pregiati dell’edizione 19 c’è anche il vincitore del MyMovies Award, l’hongkongese “Mad World”, potenziale asso pigliatutto rimasto invece al palo di un Gelso d’Oro minore. Peggio è andata al quotatissimo cinese “I am not Madame Bovary”, dello Spielberg cinese Feng Xiaogang, che è parso fin da subito una spalla sopra tutti (non solo per l’insolito formato, un iris tondo che poche volte viene abbandonato a favore di un aspect ratio rettangolare) e che invece è tornato a casa a mani vuote. Ma del resto, come abbiamo già altre volte sottolineato, in una kermesse del genere gli allori e i premi hanno un valore relativo, servono più per i titoli dei giornali che per un vero e proprio palmares. Il principale obiettivo di uno showcase come il Far East è quello di offrire un affresco

Split

Split

di ciò che è successo nell’ultimo anno da un punto di vista artistico nei Paesi del continente asiatico. Lo spunto

trasversale della disillusione nei confronti dell’autorità, ad esempio, è interessantissimo: in Corea non ci

si fida più delle forze dell’ordine, e tanto vale farsi giustizia da soli (oltre a “Split”, “Fabricated City”); a Hong Kong i medici e gli istituti di cura antepongono al bisogno di guarigione la necessità di liberare posti letto per alleggerire un sistema al collasso (“Mad World”); in Cina e Taiwan quasi si deride la figura del maestro/insegnante (“Mr. Zhu’s Summer”, “Mon Mon Mon Monsters”). È per questi percorsi, per questi filoni sotterranei da scoprire e sondare che il Far East Film Festival di Udine resta per gli amanti della Settima Arte uno degli appuntamenti imprescindibili dell’anno.

Filippo Zoratti

Cinema

Far East Film Festival 19 – FEFF 2017

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Seconda parte: Cinematografie minori… a chi?

di Filippo Zoratti
 

Se è vero che un ventennio di Far East Film Festival ha permesso al pubblico di approfondire la conoscenza di alcune cinematografie “maggiori” fino a quel momento pervenute a singhiozzo (in Cina non c’è solo Zhang Yimou, in Corea del Sud non c’è solo Kim Ki-duk), è altrettanto indiscutibile che l’evento friulano anno dopo anno ci ha fatto scoprire nazioni che – oggettivamente – non immaginavamo neppure avessero una loro Storia (di celluloide, s’intende). Ora, con maggior cognizione di causa, sappiamo che le opere giapponesi sono quelle che si avvicinano di più al gusto occidentale (nel bene e nel male); che la Cina, a causa della forte censura, è abilissima nel mettere in scena drammi iperrealisti che rimandano spesso ad “altro” (una velata critica verso le istituzioni, il trionfo di un individuo nel Paese in cui l’individuo è quasi per legge invisibile); che Hong Kong, in quanto “succursale” cinese, galoppa più a briglia sciolta verso l’action a rotta di collo e l’intrattenimento puro. Ma l’Asia, eterna miniera di scoperte, è destinata a continuare a sorprendere. In questi lustri sono finiti sotto i riflettori anche mondi

Mattie Do

Mattie Do

alieni, che mai avremmo immaginato tali. Chi avrebbe mai sospettato che la Malesia, ad esempio, fosse così amante del cinema di genere? Pellicole quali “Kala Malam Bulan Mengambang” (omaggio al noir), “Zombi Kampung Pisang” (dedicato ai morti viventi) e “Mrs K” (grindhouse western comedy, nella definizione del programma FEFF 2017) sono sì risultati bizzarri, persino imbarazzanti, ma dicono moltissimo di un Paese e delle sue aspirazioni, della tensione verso la modernità e la globalizzazione. L’edizione numero 19 ospita per la prima volta un lavoro proveniente dal Laos: “Dearest Sister” è – non è un eufemismo – il decimo film nella Storia della Repubblica Popolare sud-est asiatica, e già questa nota aumenta a dismisura la curiosità verso uno Stato che può permettersi di produrre cinema solo in co-produzione con l’estero (nel caso del film di Mattie Do con Francia ed Estonia).

Die Beautiful

Ci sono nazioni che pian piano si affermano, ed altre che con lo scorrere dei decenni riducono la loro importanza, quasi fino a sparire. Un esempio della prima categoria sono senza alcun dubbio le Filippine, accolte quasi con scherno dal pubblico nei primi anni di kermesse (operine come “D’Anothers” e “Agent X44”, seppur al netto del loro ostentato spirito parodico, non avrebbero potuto convincere del contrario) e ora invece al centro di un rinascimento che non riguarda solo Lav Diazè e Brillante Mendoza, ma anche il prolifico e pop Erik Matti (“The Arrival”, “Honor Thy Father”) e alcune nuove leve che non possiamo non considerare (“Die Beautiful” di Jun Robles Lana è uno dei titoli di punta di questa annata).

A perdere terreno invece, è in modo sempre più evidente la Tailandia, il cui ultimo acuto è stato “13 Beloved” (Far East 2007). Poi, l’involuzione artistica ha preso il sopravvento, tra presunti horror-ghost-dramas replicanti e la presenza schiacciante del campione Apichatpong Weerasethakul (detto Joe, per amore di brevità), Palma d’Oro a Cannes 2010 con “Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti”. La forbice dei nuovi Paesi da conoscere si allarga: quale sarà – dopo il Laos – il nuovomondo da esplorare nel 2018?

Filippo Zoratti

Cinema

Far East Film Festival 19 – FEFF 2017

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Prima parte: Una tribù che balla

di Filippo Zoratti
 

Secondo il calendario cinese, il 2017 è l’anno del Gallo. Un’annata dedicata alle persone coraggiose, elastiche, tenaci. Caratteristiche proprie anche del Far East Film Festival, che come di consueto cavalca l’onda dell’appoggio e della familiarità col proprio pubblico, muovendosi – serio e faceto – tra l’affermazione “istituzionale” di sé (perché per dar vita a tutto, nel 1998, c’è voluta una buona dose di incoscienza e audacia) e l’eterno gioco con i fareasters, gli amanti dell’evento a tutto tondo (ovvero

Survival Family

Survival Family

indipendentemente dalla qualità dei film della selezione). Se di gallo si parla dunque, si parla anche di “piume” (il gadget scelto per questa edizione) da appuntare come spille e a mò di tratto distintivo. Quella del FEFF è una tribù che balla, che si riconosce e che continua a seguire una manifestazione ormai radicata nel territorio friulano ed italiano “accettando il mistero”. Dopo 19 anni la superficie è appena scalfita: si riconoscono autori e correnti, si forma e si trasforma il gusto degli spettatori; ma al contempo ci si affaccia alla maggior parte delle proposte

I Am Not Madame Bovary

I Am Not Madame Bovary

ancora senza sapere a cosa si stia per assistere, accettando anche (enorme atto di fede della tribù) l’inevitabile scotto della promessa non mantenuta o della profonda delusione. Amare il Far East significa farlo “a scatola chiusa”: nessun festival nazionale sviluppa un’empatia così forte, ed è questo il vero patrimonio da tramandare di anno in anno, la vera forza della manifestazione. Il cinema diventa così, nelle parole degli organizzatori Sabrina Baracetti e Thomas Bertacche, un “antidoto al buio”: il buio delle coscienze intorpidite, il buio della rinuncia alla cultura, il buio della crisi (economica e di valori). Al Teatro Nuovo di Udine ogni anno si riunisce una festosa famiglia che vive e sopravvive nonostante tutto, e il gancio è presto fatto: ad aprire Far East 19 ci pensa il giapponese “Survival Family”, incentrato su un nucleo familiare che affronta la quotidianità dopo un improvviso e imprevedibile blackout mondiale. Una scelta chiara,

Love off the Cuff

Love off the Cuff

persino politica, cui fa da controcanto il ritorno dei tanti amici conosciuti in questi quattro lustri: Pang Ho-cheung con “Love off the Cuff”, Yamashita Nobuhiro con “My Uncle” e “Over the Fence”, Feng Xiaogang (lo Steven Spielberg cinese, a cui verrà conferito il Gelso d’Oro alla carriera) con “I Am Not Madame Bovary”, Erik Matti con “Seclusion”, Herman Yau con “The Sleep Curse” e “Shock Wave”. Come sempre, è impossibile tracciare un percorso univoco e, anzi, è altamente sconsigliabile: nella miriade di sollecitazioni peschiamo ancora a caso il primo film proveniente dal Laos (“Dearest Sister)”, l’evento “Die Beautiful” in collaborazione con l’FVG Pride, i restauri di “Made in Hong Kong” di Fruit Chan e di “Cain and Abel” di Lino Brocka. E puntiamo già su alcuni potenziali vincitori, opere che faranno sicuramente breccia nel cuore della platea, seguendo le personalissime definizioni della schedule ufficiale: la transgender-family “Close-Knit”, lo zero-to-hero ice hockey drama “Run-Off”, il quirky father-son drama “Shed Skin Papa” e l’offbeat youth drama “Love and Other Cults”. La tribù del FEFF, insomma, è pronta di nuovo a ballare.

 

Filippo Zoratti

 

 

Cinema

18° Far East Film Festival – FEFF 2016

Episodio II: Caccia all’orrore

di Filippo Zoratti

Per anni l’Horror Day è stato – in modo trasversale rispetto al variegato programma delle retrospettive – uno dei punti fermi del Far East Film Festival. La sua esplosione e il suo successivo declino hanno coinciso con la scoperta e la caduta del J-Horror: titoli come “Ring” (1998), “Ju-on” (2000) e “Dark Water” (2002), assieme all’hongkongese “The Eye” (2002) hanno aperto la via ad un nuovo – sopravvalutato? – filone aurifero, come dimostrano anche gli svariati remake americani che ne sono stati tratti. È stata una fiammata, breve ma intensa, che ci ha fatto scoprire alcune “ossessioni” asiatiche fino a quel momento sconosciute, molto più che per altri generi: la presenza dell’acqua ad esempio, che per un Paese circondato dall’Oceano come il Giappone è portatrice di spavento e minaccia imminente (e il pubblico occidentale ha trovato finalmente una motivazione per la follia generata da una goccia che cade dal soffitto). Il FEFF è stato lungimirante nella sua caccia all’orrore, seminando qua e là nel corso delle edizioni qualche titolo effettivamente memorabile: “R-Point” (2004), “13-Beloved” (2006), “Body” (2007), “4bia” (2008), “Bedevilled” (2010). Poi il gioco si è rotto, complice l’altalenante produzione annuale delle singole nazioni e la sensazione che il vento iniziasse a girare altrove. Da Far East 14 (ovvero dal 2012) la giornata dedicata all’horror è stata bandita, con un meccanismo simile a quello avvenuto per il tramonto della selezione Pink Movies (il cui canto del cigno è stato l’indimenticato “The Glamorous Life of Sachiko Hanai”). A 6 anni di distanza però, con un colpo di scena inatteso, eccolo di nuovo, ribattezzato Psycho Horror Day. Introdotto idealmente dalla proiezione di “House”

1977 - Torta del film "House"

1977 – Torta della festa del film “House”

e dal Gelso d’Oro alla carriera a Obayashi Nobuhiko, il focus sulla paura attinge a diverse realtà, affidandosi all’emulazione o cercando una propria originalità: nel calderone trovano spazio esorcismi alla Friedkin (“The Priest”) e mostri della montagna taiwanesi (“The Tag-Along”), cultura pop tailandese (“Senior”) e incubi d’atmosfera coreani anni ’30 (“The Silenced”). Fino alle due pellicole di punta, entrambe nipponiche: “The Inerasable” di Nakamura Yoshihiro (sceneggiatore proprio di “Dark Water”) e “Creepy” di Kurosawa Kiyoshi (passato a Berlino). Il FEFF ci riprova, rilanciando una proposta che sembrava morta e sepolta sotto il peso di molti film non all’altezza della definizione horror. Una scelta che si specchia e fa il paio da un lato con la conferma dei documentari (ce n’è uno anche nell’Horror Day: “The Lovers and the Despot”, sul rapimento del regista Shin Sang-ok da parte del dittatore nordcoreano Kim Jong-il), una delle novità più apprezzate degli ultimi anni, e dall’altro con la new entry della piccola selezione “China Now”, che ci immerge nella realtà dei film cinesi destinati a non essere diffusi oltre i confini della Repubblica Popolare. Si ritorna insomma al futuro, esplorando al contempo nuovi possibili percorsi degni di approfondimento culturale. Se c’è un motivo per cui (da spettatori, studiosi, cinefili) occorre essere grati per il lavoro svolto dal Far East Film Festival in questi 18 anni è proprio questo: la capacità di mostrare al pubblico una summa di tutto ciò che anno dopo anno è – o ritorna ad essere – attuale nello sconfinato continente asiatico.


Filippo Zoratti

 

trailer del festival

Cinema

18° Far East Film Festival – FEFF 2016

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Episodio I: Il prezzo della maturità

 

di Filippo Zoratti
 

Per segnalare il passaggio alla maggiore età, il Far East – con la solita dose di autoironia – ha scelto come gadget “di lancio” una patente di guida, con tanto di vidimazioni e conferme di validità. Ma a 18 anni un festival diventa davvero maggiorenne? Nel caso dell’evento friulano ci si può da un lato stupire della lungimiranza di un progetto nato in sordina nel 1999 (il glorioso Hong Kong Film Festival, l’anno zero WP_20160423_002che ha gettato le basi di tutto), e dall’altro rendersi perfettamente conto di come il Feff – oltre ad essere oramai radicato nel territorio – abbia ben piantato le proprie radici a livello nazionale. La conferma arriva dall’investitura statale ricevuta dalla manifestazione, per il rapporto fra le industrie di Oriente e Occidente. Un privilegio che emancipa il Feff persino dal semplice contesto cinematografico: qua si parla di cultura tout court, di rapporti fra nazioni lontane lontane eppure accomunate dal nobile intento della divulgazione dell’arte. È il principio che regola il convegno Ties That Bind, workshop di coproduzione fra Asia ed Europa che ogni anno si affina e migliora le proprie prospettive. Il Far East è quindi oramai un gigante che può permettersi di guardare lontano, ma che deve tuttavia tenere a bada alcune fragilità insite nell’idea stessa di “evento pop(olare)”. Tra i punti di forza (e insieme, di debolezza) della proposta c’è la commistione ardita fra cinema basso e cinema alto, fra prodotto alimentare irricevibile per una platea estranea alle dinamiche panasiatiche e grande film d’autore di ampio riconoscimento festivaliero e internazionale. Chi ama il Far East Film Festival lo fa indipendentemente dal livello delle pellicole proposte, è vero, ma quando la forbice fra qualità (delle visioni) e quantità (dell’esborso) si allarga a dismisura, è lecito aspettarsi che qualcosa, nel magico equilibrio costruito pazientemente anno dopo anno, si possa rompere. A costo di apparire venali, uno dei motivi – non di certo l’unico – per cui l’edizione 18 verrà ricordata è il forte aumento dei prezzi, su qualunque tipo di accredito. Il festival orgogliosamente pop rischia così di diventare snobisticamente d’élite: il viaggetto di 10 giorni nella galassia Feff inizia ad assumere i connotati del privilegio per pochi, snaturando così lo spirito “autarchico” degli inizi che ha fatto innamorare migliaia di fareasters. Uno spirito comunque “falsato” – le prime edizioni erano totalmente gratuite, una follia insostenibile per qualunque kermesse –, ma che ora deve scendere a patti con una considerazione inopinabile: assistere alle proiezioni del Far East Film Festival, nel 2016, costa più che assistere a quelle della Mostra del Cinema di Venezia e della Berlinale. Ne varrà la pena? Il piatto sembra essere ricco: 72 film per 10 cinematografie, il ritorno dell’Horror Day e l’esordio della sezione “China Now”, dedicata ai film indipendenti cinesi non censurati. E ancora: la retrospettiva Beyond Godzilla, focus sul cinema sci-fi giapponese, il Gelso d’Oro a Sammo Hung (storico collaboratore di Bruce Lee e Jackie Chan) e la presenza di Johnnie To (che firma anche il trailer del festival, in animazione). Insomma: crescere, diventare adulti e autonomi ha un costo, e il Feff non ha alcuna intenzione di nasconderlo. Ora resta da capire se, anche per il pubblico, l’amore non abbia prezzo…

Filippo Zoratti

www.fareastfilm.com

Cinema

Far East Film Festival 2015

FEFF 17, Udine
And the Winner is…
“Ode to My Father”

[Corea del Sud 2015, di Youn Je-kyoon, con Hwang Jung-min e Kim Yun-jin]

di Filippo Zoratti

Vince la 17a edizione del Far East Film Festival… la Corea del Sud. Non un singolo film, ma proprio una nazione intera: ad occupare i primi tre posti del podio 2015 tre opere provenienti dalla repubblica semi-presidenziale orientale. Un trionfo non annunciato, in parte controbilanciato dal Black Dragon Award finito nelle mani della cambogiana Sotho Kulikar per il suo “The Last Reel”. Forse per “il più grande festival del cinema popolare asiatico” è giunto il momento di sfatare un mito. Non è quella giapponese la cinematografia più vicina ai gusti occidentali. Il palmares della kermesse friulana parla chiaro: in 17 anni per ben 8 volte è stata la South Korea a sbancare, a fronte di sole quattro vittorie nipponiche. A fare breccia nei cuori dei fareasters è stato quest’anno il fil rouge della memoria, nelle sue varie declinazioni. Da un lato “The Royal Tailor” (2° posto), dramma in costume ambientato all’epoca della dinastia Joseon e dall’altro “My Brilliant Life” (3° posto), toccante inno alla vita incentrato su un 17enne affetto da progeria. Nel mezzo spicca “Ode to My Father”, sorta di incrocio fra il “Forrest Gump” di Zemeckis e l’“Always” di Takashi Yamazaki. Ovvero: una carrellata dei principali eventi storici che hanno caratterizzato la Corea negli ultimi sessant’anni, visti con gli occhi di un cittadino qualunque.

Tra le maglie di una narrazione più articolata di quanto possa sembrare, il regista Youn Je-kyoon pone l’accento sì sugli immensi sacrifici del protagonista Deok-soo (interpretato da Hwang Jung-min), ma più di ogni altra cosa insinua la mancata riconoscenza da parte della sua famiglia nei suoi confronti: figli e nipoti non gli sono affezionati, perché probabilmente non sono “onniscienti” come viene concesso di essere a noi spettatori privilegiati. La vicenda di Deok-soo inizia da bambino, durante la tragica emigrazione da Hungnam, e procede attraverso le tappe del lavoro in miniera nella Germania degli anni ’60 e della guerra del Vietnam. Tutti i gesti di Deok-soo – prima ragazzo, poi uomo, ora anziano – sono compiuti col desiderio di proteggere i propri cari, nella speranza di ricongiungersi un giorno con il padre perduto nel 1951. Pur non essendo apertamente tratto da una storia vera, “Ode to My Father” ci parla di un’intera generazione, puntando al contempo il dito verso chi non avendo vissuto periodi storici difficili si adagia sulle agevolazioni del proprio presente come un atto dovuto. Una scommessa vinta in patria (“Ode” è il secondo miglior incasso coreano di sempre, dopo “Roaring Currents” e prima dell’americano “Avatar”), nonostante le aspre critiche ricevute. Perché il pubblico – anche quello del Far East – ha capito che l’opera di Youn non è una patinata fiction conservatrice, ma un sentito e genuino tributo alla Storia di un Paese che ha sofferto per la propria emancipazione.

Filippo Zoratti

 

video della canzone “Ode to My Father” di Kwak Jineon e  Kim Feel

Cinema

Far East Film Festival 2015

FEFF 17, Udine
Ode to the Emotional Chain Reaction

di Filippo Zoratti

Giunto alle soglie della maggiore età, il Far East Film Festival di Udine non accenna neanche lontanamente ad una diminuzione del proprio consenso popolare, costruito e consolidato anno dopo anno nell’unità di spazio del Teatro Nuovo Giovanni da Udine. Anzi, chi all’epoca della 10a edizione – vista, chissà perché, come momento di bilancio generale e in cui “voltare pagina” – caldeggiava un trasferimento dalla piccola cittadina del nord-est alla più “blasonata” (?) Roma, evidentemente non aveva considerato che alla decade il FEFF non c’era arrivata col fiato corto. Tutt’altro: sebbene il festival fosse nato quasi per caso nel 1999 come focus sulla sola cinematografia hongkongese, è apparso chiaro fin da subito che una proposta del genere, nonostante alcune fisiologiche flessioni, non sarebbe stata una fiammata di breve durata. Dunque su cosa si fonda il successo del Far East, qual è il suo segreto? Probabilmente, oltre al fatto di essere stato il primo ad avventarsi sul made in Asia, il segreto sta proprio nel fatto… che non esistono segreti. Al contrario, nel tempo è aumentata la piacevole sensazione di una ricerca continua di supporto col proprio pubblico di riferimento, del tutto priva di approcci snobistici. È su questo punto che la manifestazione gioca la propria annuale partita, non di certo sulla singola qualità dei film.

Così, mentre tutto attorno le kermesse che hanno tentato di emulare il sogno friulano chiudono o registrano costanti e cocenti emorragie di pubblico, a Udine si verifica immutabile il “miracolo”: per nove giorni l’orologio si ferma, si entra in una bolla di sapone e non si fa che parlare e discutere di cinema asiatico. Mescolando alto e basso, fermandosi magari un paio d’ore per non andare in overdose ed essenzialmente grati per un’atmosfera inedita, esclusiva e sorprendentemente genuina. Indipendentemente, lo ripetiamo, dal valore oggettivo delle pellicole proposte, frutto della buona o cattiva annata delle singole nazioni. Perché il Far East Film Festival è un “movimento”, una “emotional chain reaction” come sottolinea l’indovinatissimo trailer della 17a edizione. Sul fatto che sia stata l’emotività a trionfare del resto non avevamo dubbi, osservando il palmares finale: vince “Ode to My Father”, commovente epopea di un “Forrest Gump” coreano che attraversa cinquant’anni di Storia, dalla Guerra di Corea al Vietnam ai giorni nostri.

Un podio tutto coreano – a proposito di bilanci: su 17 edizioni per ben 8 volte la Corea del Sud si è meritata l’Audience Award – il cui fil rouge sembra essere il concetto di memoria, nelle sue varie declinazioni: dalla sopraccitata “Ode” a “The Royal Tailor” (2° posto), dramma in costume ambientato all’epoca della dinastia Joseon, fino alla memoria “mancante” raccontata in “My Brilliant Life” (3° posto), toccante inno alla vita incentrato su un 17enne affetto da progeria. Allarghiamo lo sguardo: il Far East Film Festival sta – e siamo solo all’inizio – costruendo una memoria collettiva che non c’era, definendo le coordinate di una cinematografia lontana che così lontana non lo è più. Sta, in ultima ed estrema sintesi, riunendo sotto un’unica dicitura una famiglia trasversale di appassionati e giornalisti, curiosi e addetti ai lavori, studenti e docenti. Li chiamano “fareasters”: un popolo agguerrito disposto a tutto pur di difendere la creatura che ha visto crescere nel corso di 17 lunghissimi – e brevissimi! – anni. Considerando i continui tagli alla cultura, le conseguenze della crisi da cui tutt’ora siamo sommersi e la ormai immediata reperibilità – legale o meno – dei prodotti audiovisivi, questo risultato non può che essere eccezionale.
Filippo Zoratti