54. Vienna International Film Festival – Viennale 2016

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Kenneth, Jacques, Christopher e gli altri

di Filippo Zoratti
 

Oltre che per la sua invidiabile informalità, la Viennale (nome che omaggia e al contempo canzona la più impettita Berlinale) si distingue per l’entusiasta eterogeneità di contenuto. Il Vienna International Film Festival non prevede competizione, ma solo la “rappresentazione” e la divulgazione delle più interessanti opere passate durante l’anno nelle kermesse del resto del mondo. È il concetto portante dello Spielfilme, gara senza gara che comprende i migliori – e magari più discussi – film passati a Venezia, Locarno, Cannes, Sundance e Toronto. Quest’anno sono 79, fra cui il vincitore di Venezia 73 “The Woman Who Left”, gli ultimi lavori di autori contemporanei di punta (“Un padre, una figlia” di Cristian Mungiu, “Yourself and Yours” di Hong Sang-soo, “Elle” di Paul Verhoeven, “La ragazza senza nome” dei Dardenne, “Paterson” di Jim Jarmusch), le nuove scommesse (“Diamant noir”, il finlandese in corsa ai prossimi Oscar “The Happiest Day in the Life of Olli Maki”, “Cump4rsit4” dell’aficionado argentino Raul Perrone, il discusso “Nocturama” di Betrand Bonello) e le pellicole di più largo richiamo (“Personal Shopper” e “Certain Women” con Kristen Stewart, il film di chiusura “La La Land”). Tutto qui? Neanche per idea: oltre alla selezione ufficiale c’è un dedalo quasi inestricabile di tributi, focus speciali e retrospettive, con corollario di eventi extra-cinematografici. Fra un concerto di Patti Smith, una mostra fotografica e la proiezione gratuita di “Daft Punk Unchained” con annesso party è possibile approfondire in questa 54a edizione la cinematografia di Kenneth Lonergan – per inciso: il più talentuoso ed incompreso cineasta americano dei 2000, secondo Martin Scorsese, folgorato dal suo “Margaret” – ad esempio, cui è affidata l’apertura della manifestazione con “Manchester by the Sea”, o magari perdersi fra una sala e l’altra a caccia della quasi totale filmografia di Jacques Rivette, maestro della Nouvelle Vague. Fra i percorsi possibili, spiccano poi l’omaggio al “dancer in the dark” Christopher Walker (12 i film proposti, compreso il memorabile videoclip “Weapon of Choice” firmato da Spike Jonze) e il progetto sui cinegiornali cubani del decennio 1960-1970. Ci piace chiudere questa pur sommaria elencazione del denso cartellone della Viennale 2016 con quello che gli organizzatori definiscono il “Rinascimento analogico”, ovvero il rispolvero del re dei formati del cinema classico (il 70mm) favorito perlopiù dalla distribuzione di “The Hateful Eight” di Tarantino: la sezione “Analog Pleasure” è dedicata ai formati desueti della Settima Arte, destinati a non estinguersi nonostante l’avvento del digitale. Un approfondimento che contempla i super8 del collettivo berlinese Die Tödliche Doris, i 16mm di “La Vallée close”, i 35mm delle “Student Nurses” di Stephanie Rothman e – dulcis in fundo – i 70mm di Jacques Tati e del suo “Playtime”. Quello della capitale austriaca è un festival insaziabile e impossibile da abbracciare nella sua totalità, che suggerisce itinerari eclettici – cerebrali e popolari, d’essai e mainstream – ma comunque all’insegna del rifiuto dell’istituzionalità. 13 giorni che grazie all’approccio degli organizzatori Eric Pleskow, Hans Hurch e Eva Rotter diventano – parafrasando Tati – “tempo di divertimento”, opposto alle sovrastrutture festivaliere che fanno della loro supposta esclusività il proprio fiore all’occhiello.

Filippo Zoratti

 

 

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