Far East Film Festival 19 – FEFF 2017

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Seconda parte: Cinematografie minori… a chi?

di Filippo Zoratti
 

Se è vero che un ventennio di Far East Film Festival ha permesso al pubblico di approfondire la conoscenza di alcune cinematografie “maggiori” fino a quel momento pervenute a singhiozzo (in Cina non c’è solo Zhang Yimou, in Corea del Sud non c’è solo Kim Ki-duk), è altrettanto indiscutibile che l’evento friulano anno dopo anno ci ha fatto scoprire nazioni che – oggettivamente – non immaginavamo neppure avessero una loro Storia (di celluloide, s’intende). Ora, con maggior cognizione di causa, sappiamo che le opere giapponesi sono quelle che si avvicinano di più al gusto occidentale (nel bene e nel male); che la Cina, a causa della forte censura, è abilissima nel mettere in scena drammi iperrealisti che rimandano spesso ad “altro” (una velata critica verso le istituzioni, il trionfo di un individuo nel Paese in cui l’individuo è quasi per legge invisibile); che Hong Kong, in quanto “succursale” cinese, galoppa più a briglia sciolta verso l’action a rotta di collo e l’intrattenimento puro. Ma l’Asia, eterna miniera di scoperte, è destinata a continuare a sorprendere. In questi lustri sono finiti sotto i riflettori anche mondi

Mattie Do

Mattie Do

alieni, che mai avremmo immaginato tali. Chi avrebbe mai sospettato che la Malesia, ad esempio, fosse così amante del cinema di genere? Pellicole quali “Kala Malam Bulan Mengambang” (omaggio al noir), “Zombi Kampung Pisang” (dedicato ai morti viventi) e “Mrs K” (grindhouse western comedy, nella definizione del programma FEFF 2017) sono sì risultati bizzarri, persino imbarazzanti, ma dicono moltissimo di un Paese e delle sue aspirazioni, della tensione verso la modernità e la globalizzazione. L’edizione numero 19 ospita per la prima volta un lavoro proveniente dal Laos: “Dearest Sister” è – non è un eufemismo – il decimo film nella Storia della Repubblica Popolare sud-est asiatica, e già questa nota aumenta a dismisura la curiosità verso uno Stato che può permettersi di produrre cinema solo in co-produzione con l’estero (nel caso del film di Mattie Do con Francia ed Estonia).

Die Beautiful

Ci sono nazioni che pian piano si affermano, ed altre che con lo scorrere dei decenni riducono la loro importanza, quasi fino a sparire. Un esempio della prima categoria sono senza alcun dubbio le Filippine, accolte quasi con scherno dal pubblico nei primi anni di kermesse (operine come “D’Anothers” e “Agent X44”, seppur al netto del loro ostentato spirito parodico, non avrebbero potuto convincere del contrario) e ora invece al centro di un rinascimento che non riguarda solo Lav Diazè e Brillante Mendoza, ma anche il prolifico e pop Erik Matti (“The Arrival”, “Honor Thy Father”) e alcune nuove leve che non possiamo non considerare (“Die Beautiful” di Jun Robles Lana è uno dei titoli di punta di questa annata).

A perdere terreno invece, è in modo sempre più evidente la Tailandia, il cui ultimo acuto è stato “13 Beloved” (Far East 2007). Poi, l’involuzione artistica ha preso il sopravvento, tra presunti horror-ghost-dramas replicanti e la presenza schiacciante del campione Apichatpong Weerasethakul (detto Joe, per amore di brevità), Palma d’Oro a Cannes 2010 con “Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti”. La forbice dei nuovi Paesi da conoscere si allarga: quale sarà – dopo il Laos – il nuovomondo da esplorare nel 2018?

Filippo Zoratti

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