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Cinema

55. Vienna International Film Festival Viennale 2017

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55. Vienna International Film Festival Viennale 2017: 5 colpi di fulmine

di Filippo Zoratti
  1. Ex Libris – The New York Public Library”, Usa 2016, di Frederick Wiseman

C’è qualcosa di commovente, puro e persino ingenuo nel modo in cui Frederick Wiseman, 87locandina anni, guarda all’umanità. Al centro di “Ex Libris” c’è la biblioteca pubblica di New York – con le sue 92 filiali dislocate tra Manhattan, il Bronx e Staten Island – e c’è più di ogni altra cosa la vita in divenire, la presa diretta di convention con studiosi e cantanti (Elvis Costello), riunioni del direttivo (argomento: la riduzione del divario digitale), bizzarre richieste di prestito (ma gli unicorni esistono sì o no?), corsi di scrittura per bambini. Ad unire il flusso eterogeneo degli incontri, l’idea indefessa di fiducia nella cultura che genera per naturale e quasi ovvia conseguenza democrazia. “Ex Libris” documenta il reale senza corrompere, modificare o forzare il significato delle immagini, con una limpida morale che viene da sé: la dignità umana passa inevitabilmente attraverso l’accesso all’informazione e allo scambio aggregativo, si tratti di una conferenza da migliaia di persone o di uno sparuto gruppo di persone sedute attorno ad un tavolo.

  1. A Ghost Story”, Usa 2017, di David Lowery

Si può prendere sul serio un film in cui il protagonista, a seguito di un incidente stradale mortale, ritorna come fantasma munito di lenzuolo con buchi per gli occhi? Le regole del gioco imposte dal regista David Lowery sono essenzialmente due: la totale sospensione dell’incredulità nei confronti della storia raccontata e un’idea di cinema che pone molte domande senza necessariamente poi fornire ghost1pedissequamente tutte le risposte. “A Ghost Story” è un prodotto ipnotico privo di confini narrativi (in paradossale contrasto con l’espediente tecnico del 4:3 ad angoli smussati) che flirta con i cliché del genere horror chiedendoci al contempo di guardare oltre, molto oltre. Fra l’atto del guardare e quello dell’attendere – resi attraverso stacchi di montaggio e brusche ellissi – c’è un film che riesce a dare forma e sostanza ad un concetto non rappresentabile: l’assenza. Un’assenza dolorosa e straziante (per chi resta e per chi non c’è più), che svilisce i ricordi e sfuma il senso della nostra identità.

  1. A Skin So Soft”, Canada/Francia/Svizzera 2017, di Denis Côté

È con lo stupore del neofita che il regista canadese Denis Côté si approccia al gruppo di cultuskin2risti e super-uomini protagonisti di “A Skin So Soft”. Fonte primaria di ispirazione per il filmmaker quebecchese sono i microcosmi a lui stesso estranei, da indagare con ingenuità e senza conoscenze pregresse. La quotidianità dei sei ingombranti bodybuilders Jean-François, Ronald, Maxim, Benoit, Cédric e Alexis non è mai filtrata attraverso lo stereotipo o la presa in giro: c’è chi piange mentre fa colazione, guardando video motivazionali su Youtube; chi a fine carriera si è reinventato maestro di vita/chinesiologo; chi cerca di convincere la propria perplessa compagna a coltivare la medesima passione; chi si allena in modo anomalo rispetto agli altri, perché wrestler e non culturista tout court. È un mondo parallelo ma non troppo, in cui emerge la fragilità dell’essere umano vittima delle proprie fissazioni. Verso l’infinito e oltre, alla ricerca di una personale, bislacca e muscolare idea di felicità.

  1. I Am Not Madame Bovary”, Cina 2016, di Feng Xiaogang

Assecondando la smania occidentale di etichette e classificazioni, si è soliti definire il registbovary1a Feng Xiaogang – in virtù di una carriera costellata di blockbuster di successo – “lo Steven Spielberg cinese”. Astutamente verboso e squisitamente fluviale, “I Am Not Madame Bovary” non è un film sulla Madame Bovary flaubertiana, ma su “una” Madame Bovary che rifiuta tale disdicevole appellativo. La storia ruota attorno a Li Xuelian, moglie caparbia che finge di divorziare dal marito per poter ottenere un appartamento in città. Incubo kafkiano e al contempo favola trasognata, “I Am Not Madame Bovary” ci trascina nelle segrete stanze del sistema legale cinese e dei suoi labirinti burocratici attraverso l’insolito utilizzo di un iris tondo che coincide con lo stato d’animo soffocato della protagonista. Incastrato in un meccanismo amorale e inestricabile, l’uomo è una delle microscopiche parti di un sistema abnorme e complesso; ma, come ammette uno dei burocrati perseguitati da Li Xuelian, “un seme è diventato un cocomero, una formica è diventata un elefante”.

  1. Closeness”, Russia 2017, di Kantemir Balagov

C’era molta curiosità attorno all’esordio alla regia di Kantemir Balagov, 26 anni, allievo prediletto del maestro Aleksandr Sokurov (“Arca russa”, “Faust”). “Closeness” a Cannes ha conquistato tutti, closenesscon il suo stile asciutto e la sua idea di cinema stratificata e coerente. La storia del film necessita della conoscenza pregressa della Storia di una nazione: siamo nel 1998 a Nalchik, capitale della Repubblica di Kabardino-Balkaria, a cavallo fra le due guerre cecene. Per quanto ben integrata, la comunità ebraica locale preferisce non dare nell’occhio, restare in disparte e risolvere le cose al suo interno. L’incubo in cui sprofonda la famiglia della giovane Ilana assume dunque connotati ancora più torbidi: suo fratello e la sua ragazza vengono rapiti, e la richiesta di riscatto è altissima. Che fare? Impossibile rivolgersi alle autorità, impossibile trovare una soluzione che non contempli il sacrificio e la perdita della dignità. La fitta tela ordita dal demiurgo Balagov imbriglia il nucleo familiare protagonista e noi spettatori, complice il formato 4/3 che rinchiude e aumenta il senso di claustrofobia.

Filippo Zoratti

Cinema

55. Vienna International Film Festival Viennale 2017

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55. Vienna International Film Festival Viennale 2017

di Filippo Zoratti
 

Dedicato alla memoria di Hans Hurch, storico direttore della Viennale prematuramente scomparso a luglio a causa di un attacco di cuore e figura cruciale della cultura austriaca, il Vienna International Film Festival 2017 conferma la propria natura di showcase onnicomprensivo e capillare, capace di indagare la Settima Arte a 360° senza snobismi di sorta. Il ricchissimo programma della 55a edizione parte come hans-hurchsempre dalla selezione ufficiale – che non è una gara, non c’è competizione – composta dai migliori titoli visti nei festival internazionali durante l’anno: dai veneziani “The Shape of Water” e “Downsizing” ai cannensi “120 battiti al minuto” e “The Day After”, dai berlinesi “On the Beach at Night Alone” e “Golden Exits” agli svizzeri (passati cioè a Locarno) “La telenovela errante” e “Nothingwood”. In mezzo scorrono i piccoli/grandi casi cinematografici di cui si è molto parlato in questi mesi – su tutti il cinese “I Am Not Madame Bovary”, l’americano “A Ghost Story”, il franco-belga “Grave – Raw ”, il tedesco “Licht” – e soprattutto la consueta babele di sottosezioni, retrospettive, special programs e tributi. Nell’impossibilità di riassumere tutta la variegata proposta (a meno di non cedere alla banalità dell’elenco) vale forse la pena affrontare brevemente quelli che sono i focus più anomali e imprevedibili, fiori all’occhiello di una kermesse che segue e ha sempre seguito una propria personale analisi dell’audiovisivo. A partire dalla sezione “Napoli! Napoli!”, incentrata sulle opere contemporanee partenopee. Trovano qui asilo le “Appassionate” di Tonino De Bernardi (evento nell’evento, considerando la carriera underground dell’autore torninese), “L’uomo in più” di Sorrentino e buona parte della produzione di Pappi Corsicato, Mario Martone e Antonio Capuano. Tra il più facilmente inquadrabile omaggio a Christoph Waltz – special guest dell’edizione – e la conferma del cosiddetto “Analog Pleasure” che riporta l’attenzione sui

Christoph Waltz

Christoph Waltz

formati desueti in via di estinzione causa avvento del digitale (qui spiccano le scelte di “The Master” di Paul Thomas Anderson, girato in 70mm, e del capolavoro “L’intendente Sansho” di Kenji Mizoguchi) ci sono multiversi da scoprire e moltitudini da sondare. Spazio dunque a nomi pressoché sconosciuti al pubblico italiano: il fotoreporter e regista francese Raymond Depardon, l’attrice austriaca Carmen Cartellieri (in attività per soli 10 intensi anni, dal 1919 al 1929) e l’artista sperimentale tedesco Heinz Emigholtz (di cui saranno proiettati anche gli ultimi lavori “Brickels – Socialism” e “2+2=22”). A chiudere il paniere la consueta mega-retrospettiva del Filmmuseum, che proseguirà la sua corsa anche a Viennale finita (fino al 30 novembre): tocca a “Utopia and Correction”, analisi del cinema sovietico dal 1926 al 1977. Quasi non annunciato infine, nascosto fra le righe come una serata a sorpresa post-festivaliera, il tributo a George A. Romero, con la proiezione del restauro di “La notte dei morti viventi” preceduta dalla performance musicale/teatrale “The Visitor” di Lawrence English. A costo di dire un’ovvietà o di abbandonarsi ad una facile frase fatta: anche quest’anno alla Viennale c’è l’imbarazzo della scelta.

Filippo Zoratti

Cinema

Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica 2017- Venezia 74

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Un coraggio da Leone (d’Oro)

di Filippo Zoratti

Salutata fin dall’annuncio del programma come una delle edizioni più coraggiose degli ultimi anni, Venezia 74 ha mantenuto la promessa fino alla fine. Vince il Leone d’Oro Guillermo del Toro con “The Shape of Water”, seguito dall’Argento a “Jusqu’à la garde” di Xavier Legrand e dal Gran Premio a “Foxtrot” di Samuel Maoz. Tre titoli che durante la kermesse nessuno o quasi aveva avuto l’ardire di nominare, ipotizzando fosse l’anno di Guédiguian con il suo “La villa”, di Abdel Kechiche con “Mektoub, My Love: Canto uno” o di Martin McDonagh con “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”. Speranze sparse e the-shape-of-water-trailer-1006017altalenanti poi anche per “Ex Libris” di Wiseman (la cui presenza al Lido sembrava dovesse avere come naturale conseguenza un riconoscimento di qualche tipo) e per “The Third Murder” di Kore-eda Hirokazu. Il trionfo inatteso di del Toro – che sul palco ha dichiarato di credere fermamanete ai “monsters”, termine frainteso ahilui dalla traduttrice con “mustard”, con effetto tragicomico – riequilibra i Leoni ostici e pressoché invisibili (in sala) degli ultimi anni: da “Sacro GRA” di Rosi allo svedese “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza”, dal colombiano “Ti guardo” al filippino “The Woman who Left”. La giuria capitanata da Annette Bening – formata fra gli altri da Rebecca Hall, Jasmine Trinca ed Edgar Wright – ha con un colpo di spugna restituito il cinema al pubblico, sancendo la necessità di wp_20170909_011un’autorialità ricevibile e fruibile anche dallo spettatore pop del sabato sera, magari ignaro della vittoria veneziana. Una scelta (opinabile, ovviamente, ma affascinante) in qualche modo simile a quella compiuta nel 2008 con “The Wrestler” di Aronofsky, ode al corpo sfatto e all’anima fragile di Mickey Rourke. La consacrazione di del Toro, autore storicamente sottovalutato dalla critica a causa di una poetica che non disdegna il mainstream (come dimostra gran parte della sua produzione, da “Hellboy” a “Il labirinto del fauno”, fino a “Pacific Rim”), passa attraverso la storia di una addetta alle pulizie muta che instaura un rapporto di amicizia con una creatura anfibia scoperta all’interno di una cisterna d’acqua. Una favola nera dedicata agli emarginati che non cambiano le regole del mondo ma le subiscono, un approdo all’intimismo fantastico che tutto sommato ci sembra andare a braccetto con quello più sociale dell’opera prima “Jusqu’à la garde” di Legrand, focalizzato su due genitori che divorziano e litigano per la custodia del figlio (ignorando che la vera vittima sia proprio lui). Venezia 74 verrà ricordata anche per un altro tocco di spavalderia/follia: l’assenza di premi italiani. Un colpo di scena, giacché un premio, macro o microscopico che sia, ogni anno viene consegnato ad almeno una delle opere nazionali in concorso quasi di default. Così la quasi sicura Coppa Volpi al Donald Sutherland di “Ella & John” di Virzì è finita nelle mani di Kamel El Basha per il libanese “The Insult”, mentre l’alloro per la miglior interpretazione femminile a Charlotte Rampling per l’italo-franco-belga “Hannah” appare più come uno sberleffo allo Stivale che una sua celebrazione. A risaltare di conseguenza – e ne siamo felici – è stata la vittoria di Susanna Nicchiarelli nei collaterali “Orizzonti”, con un’opera (“Nico, 1988”, in uscita il 12 ottobre, storia della musa warholiana Christa Paffgen) di cui sentiremo ancora parlare.

Filippo Zoratti

Tutti i Premi

  • Leone d’Oro: “The Shape of Water” di Guillermo del Toro

  • Leone d’Argento: “Jusqu’à la garde” di Xavier Legrand

  • Gran Premio della Giuria: “Foxtrot” di Samuel Maoz

  • Premio Speciale della Giuria: “Sweet Country” di Warwick Thornton

  • Coppa Volpi femminile: Charlotte Rampling per “Hannah”

  • Coppa Volpi maschile: Kamel El Basha per “The Insult”

  • Premio Osella per la migliore sceneggiatura: “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” di Martin McDonagh

  • Premio Marcello Mastroianni per il miglior emergente: Charlie Plummer per “Lean on Pete”

  • Premio opera prima – Leone del futuro: “Jusqu’à la garde” di Xavier Legrand

  • Premio Orizzonti per il miglior film: “Nico, 1988” di Susanna Nicchiarelli

  • Premio Giornate degli Autori: “Candelaria” di Jhonny Hendrix Hinestroza

  • Premio Settimana Internazionale della Critica: “Temporada de caza” di Natalia Garagiola

Cinema Libri

36° Premio “Sergio Amidei”

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Amidei 2017
La scrittura, prima di tutto

di Filippo Zoratti
 

Da ormai quasi 40 anni il Premio “Sergio Amidei” di Gorizia indaga il mondo della Settima Arte attraverso l’osservatorio privilegiato della scrittura. Il nume tutelare Amidei – sceneggiatore fra gli altri per Rossellini, De Sica e Scola – guida come un faro, anno per anno,

Cuori Puri

Cuori Puri

le scelte dei curatori, attraverso programmi più pop destinati al grande pubblico e sezioni più sotterranee e articolate. Così, se il fiore all’occhiello resta sempre il ciclo di proiezioni serali al parco Coronini-Cronberg (sette titoli in gara per il Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura, i più meritevoli durante l’anno appena passato, con un occhio di riguardo alle produzioni italiane), è nelle sezioni collaterali proposte al Kinemax che si aprono percorsi imprevisti più apertamente cinefili. È una necessità che si fa virtù, considerando la retrospettività della manifestazione: tutto ciò che viene proposto all’Amidei è già stato in qualche modo distribuito, al cinema o attraverso altri canali. La nostra attenzione quest’anno si è in particolar modo orientata verso lo “Spazio Off”, categoria umbratile capace di affrontare di volta in volta i vari volti del cinema underground, e verso “Arcipelago”, tema votato alla creazione di un immaginifico ponte tra le isole del nostro Stivale. Dopo il cinema indie americano, l’indagine sull’outsider Tonino De Bernardi e l’immersione nella produzione horror italiana, lo “Spazio Off” curato da Roy Menarini ha

La tenerezza

La tenerezza

fatto breccia con un pugno di titoli recenti che indagano la religiosità: “Cuori puri”, esordio alla regia di Roberto De Paolis e colpo di fulmine della selezione; i veneziani “Liberami” e “Indivisibili”, passati entrambi – appunto – a Venezia 73; “Uomini proibiti”, documentario di inchiesta di Angelita Fiore che affronta lo “scabroso” tema dei preti che rinunciano ai propri privilegi per crearsi una famiglia. Meno immediato l’aggancio con l’“Arcipelago” costruito da Andrea Mariani, ma non meno soddisfacente, grazie alla riscoperta di un gruppo di pellicole ingiustamente dimenticate: da “Il grido della terra” di Coletti ad “Agostino” di Bolognini, fino al recente “L’attesa” di Piero Messina. Di scrittura hanno poi ovviamente parlato anche i tre ospiti principali dell’edizione: Silvio Soldini, che ritirando il Premio all’Opera d’Autore ha annunciato l’uscita di un suo nuovo film a settembre (sarà in

Memorie di un cinefilo

Memorie di un cinefilo

concorso a Venezia?); Francesco Bruni, cicerone del Premio alla Cultura Cinematografica andato quest’anno ai ragazzi del cinema America di Roma e alla loro strenua lotta per il recupero delle sale di quartiere; l’autoironico Gianni Amelio, vincitore del Premio Amidei 2017 con “La tenerezza”, ottenuto secondo lui “per sfinimento”. Un paniere ricco, come ogni anno, anche se mancante di un tassello importantissimo: la presenza di Nereo Battello, Presidente dell’Associazione culturale “Sergio Amidei”, venuto a mancare a febbraio di quest’anno. Un amico e amante della Settima Arte, cui poco più di un anno fa era stato dedicato il volume “Memorie di un cinefilo”, approfondito sunto – in forma di intervista e di recupero della sua produzione critica – di una vita dedicata con passione allo studio del cinema. Un personaggio che mancherà a Gorizia, al Premio Amidei e in generale alla cultura nazionale.

Filippo Zoratti

Cinema videomaker

Far East Film Festival 19 – FEFF 2017

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Terza parte: il mattino ha l’oro in bocca

di Filippo Zoratti
 

Sta iniziando a diventare un rito: per il quarto anno consecutivo a vincere il più grande festival del cinema popolare asiatico è stato il film proiettato alle 10 di mattina della prima – e unica – domenica di programmazione. 2014: “The Eternal Zero”; 2015: “Ode to my Father”; 2016: “A Melody to Remember”… e 2017 la transgender-family dramedy giapponese “Close-Knit”. Indubbiamente, una delle migliori proposte dell’edizione, già vista e apprezzata alla Berlinale di quest’anno. Una storia delicata e in punta di

I am not Madame Bovary

I am not Madame Bovary

cinepresa, incentrata su una ragazzina di 11 anni che si trasferisce dallo zio Tomio e fa la conoscenza della sua nuova compagna, la transgender Rinko. L’opera fa il paio con la proiezione del filippino “Die Beautiful”, visto nella sera di venerdì, e segna – a poco più di un mese dal primo Pride del Friuli Venezia Giulia – una piacevole presa di coscienza internazionale e mondiale: la comunità LGBT (a cui si aggiungono la Q di Queer, la I di Intersex e la A di Asessuali) non viene più cinematograficamente trattata come una macchietta, come un alleggerimento comico. Le due pellicole sopraccitate sono complete, universali, e il fatto che il variegato microcosmo del Far East – formato sia da cinefili della prima ora che da spettatori occasionali dell’ultim’ora – abbia così capillarmente accolto e compreso il valore dell’offerta ha il sapore del trionfo. Anche perché quest’anno il programma del Feff era costellato di lavori qualitativamente sopra la media: a partire dalla seconda posizione, il bowling drama “Split”, che conferma la capacità coreana di intercettare le grandi platee e di

Mad World

Mad World

dar vita a drammaturgie autoriali e

autorevoli. Fra i pezzi pregiati dell’edizione 19 c’è anche il vincitore del MyMovies Award, l’hongkongese “Mad World”, potenziale asso pigliatutto rimasto invece al palo di un Gelso d’Oro minore. Peggio è andata al quotatissimo cinese “I am not Madame Bovary”, dello Spielberg cinese Feng Xiaogang, che è parso fin da subito una spalla sopra tutti (non solo per l’insolito formato, un iris tondo che poche volte viene abbandonato a favore di un aspect ratio rettangolare) e che invece è tornato a casa a mani vuote. Ma del resto, come abbiamo già altre volte sottolineato, in una kermesse del genere gli allori e i premi hanno un valore relativo, servono più per i titoli dei giornali che per un vero e proprio palmares. Il principale obiettivo di uno showcase come il Far East è quello di offrire un affresco

Split

Split

di ciò che è successo nell’ultimo anno da un punto di vista artistico nei Paesi del continente asiatico. Lo spunto

trasversale della disillusione nei confronti dell’autorità, ad esempio, è interessantissimo: in Corea non ci

si fida più delle forze dell’ordine, e tanto vale farsi giustizia da soli (oltre a “Split”, “Fabricated City”); a Hong Kong i medici e gli istituti di cura antepongono al bisogno di guarigione la necessità di liberare posti letto per alleggerire un sistema al collasso (“Mad World”); in Cina e Taiwan quasi si deride la figura del maestro/insegnante (“Mr. Zhu’s Summer”, “Mon Mon Mon Monsters”). È per questi percorsi, per questi filoni sotterranei da scoprire e sondare che il Far East Film Festival di Udine resta per gli amanti della Settima Arte uno degli appuntamenti imprescindibili dell’anno.

Filippo Zoratti

Cinema

Far East Film Festival 19 – FEFF 2017

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Seconda parte: Cinematografie minori… a chi?

di Filippo Zoratti
 

Se è vero che un ventennio di Far East Film Festival ha permesso al pubblico di approfondire la conoscenza di alcune cinematografie “maggiori” fino a quel momento pervenute a singhiozzo (in Cina non c’è solo Zhang Yimou, in Corea del Sud non c’è solo Kim Ki-duk), è altrettanto indiscutibile che l’evento friulano anno dopo anno ci ha fatto scoprire nazioni che – oggettivamente – non immaginavamo neppure avessero una loro Storia (di celluloide, s’intende). Ora, con maggior cognizione di causa, sappiamo che le opere giapponesi sono quelle che si avvicinano di più al gusto occidentale (nel bene e nel male); che la Cina, a causa della forte censura, è abilissima nel mettere in scena drammi iperrealisti che rimandano spesso ad “altro” (una velata critica verso le istituzioni, il trionfo di un individuo nel Paese in cui l’individuo è quasi per legge invisibile); che Hong Kong, in quanto “succursale” cinese, galoppa più a briglia sciolta verso l’action a rotta di collo e l’intrattenimento puro. Ma l’Asia, eterna miniera di scoperte, è destinata a continuare a sorprendere. In questi lustri sono finiti sotto i riflettori anche mondi

Mattie Do

Mattie Do

alieni, che mai avremmo immaginato tali. Chi avrebbe mai sospettato che la Malesia, ad esempio, fosse così amante del cinema di genere? Pellicole quali “Kala Malam Bulan Mengambang” (omaggio al noir), “Zombi Kampung Pisang” (dedicato ai morti viventi) e “Mrs K” (grindhouse western comedy, nella definizione del programma FEFF 2017) sono sì risultati bizzarri, persino imbarazzanti, ma dicono moltissimo di un Paese e delle sue aspirazioni, della tensione verso la modernità e la globalizzazione. L’edizione numero 19 ospita per la prima volta un lavoro proveniente dal Laos: “Dearest Sister” è – non è un eufemismo – il decimo film nella Storia della Repubblica Popolare sud-est asiatica, e già questa nota aumenta a dismisura la curiosità verso uno Stato che può permettersi di produrre cinema solo in co-produzione con l’estero (nel caso del film di Mattie Do con Francia ed Estonia).

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Ci sono nazioni che pian piano si affermano, ed altre che con lo scorrere dei decenni riducono la loro importanza, quasi fino a sparire. Un esempio della prima categoria sono senza alcun dubbio le Filippine, accolte quasi con scherno dal pubblico nei primi anni di kermesse (operine come “D’Anothers” e “Agent X44”, seppur al netto del loro ostentato spirito parodico, non avrebbero potuto convincere del contrario) e ora invece al centro di un rinascimento che non riguarda solo Lav Diazè e Brillante Mendoza, ma anche il prolifico e pop Erik Matti (“The Arrival”, “Honor Thy Father”) e alcune nuove leve che non possiamo non considerare (“Die Beautiful” di Jun Robles Lana è uno dei titoli di punta di questa annata).

A perdere terreno invece, è in modo sempre più evidente la Tailandia, il cui ultimo acuto è stato “13 Beloved” (Far East 2007). Poi, l’involuzione artistica ha preso il sopravvento, tra presunti horror-ghost-dramas replicanti e la presenza schiacciante del campione Apichatpong Weerasethakul (detto Joe, per amore di brevità), Palma d’Oro a Cannes 2010 con “Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti”. La forbice dei nuovi Paesi da conoscere si allarga: quale sarà – dopo il Laos – il nuovomondo da esplorare nel 2018?

Filippo Zoratti

Cinema

Far East Film Festival 19 – FEFF 2017

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Prima parte: Una tribù che balla

di Filippo Zoratti
 

Secondo il calendario cinese, il 2017 è l’anno del Gallo. Un’annata dedicata alle persone coraggiose, elastiche, tenaci. Caratteristiche proprie anche del Far East Film Festival, che come di consueto cavalca l’onda dell’appoggio e della familiarità col proprio pubblico, muovendosi – serio e faceto – tra l’affermazione “istituzionale” di sé (perché per dar vita a tutto, nel 1998, c’è voluta una buona dose di incoscienza e audacia) e l’eterno gioco con i fareasters, gli amanti dell’evento a tutto tondo (ovvero

Survival Family

Survival Family

indipendentemente dalla qualità dei film della selezione). Se di gallo si parla dunque, si parla anche di “piume” (il gadget scelto per questa edizione) da appuntare come spille e a mò di tratto distintivo. Quella del FEFF è una tribù che balla, che si riconosce e che continua a seguire una manifestazione ormai radicata nel territorio friulano ed italiano “accettando il mistero”. Dopo 19 anni la superficie è appena scalfita: si riconoscono autori e correnti, si forma e si trasforma il gusto degli spettatori; ma al contempo ci si affaccia alla maggior parte delle proposte

I Am Not Madame Bovary

I Am Not Madame Bovary

ancora senza sapere a cosa si stia per assistere, accettando anche (enorme atto di fede della tribù) l’inevitabile scotto della promessa non mantenuta o della profonda delusione. Amare il Far East significa farlo “a scatola chiusa”: nessun festival nazionale sviluppa un’empatia così forte, ed è questo il vero patrimonio da tramandare di anno in anno, la vera forza della manifestazione. Il cinema diventa così, nelle parole degli organizzatori Sabrina Baracetti e Thomas Bertacche, un “antidoto al buio”: il buio delle coscienze intorpidite, il buio della rinuncia alla cultura, il buio della crisi (economica e di valori). Al Teatro Nuovo di Udine ogni anno si riunisce una festosa famiglia che vive e sopravvive nonostante tutto, e il gancio è presto fatto: ad aprire Far East 19 ci pensa il giapponese “Survival Family”, incentrato su un nucleo familiare che affronta la quotidianità dopo un improvviso e imprevedibile blackout mondiale. Una scelta chiara,

Love off the Cuff

Love off the Cuff

persino politica, cui fa da controcanto il ritorno dei tanti amici conosciuti in questi quattro lustri: Pang Ho-cheung con “Love off the Cuff”, Yamashita Nobuhiro con “My Uncle” e “Over the Fence”, Feng Xiaogang (lo Steven Spielberg cinese, a cui verrà conferito il Gelso d’Oro alla carriera) con “I Am Not Madame Bovary”, Erik Matti con “Seclusion”, Herman Yau con “The Sleep Curse” e “Shock Wave”. Come sempre, è impossibile tracciare un percorso univoco e, anzi, è altamente sconsigliabile: nella miriade di sollecitazioni peschiamo ancora a caso il primo film proveniente dal Laos (“Dearest Sister)”, l’evento “Die Beautiful” in collaborazione con l’FVG Pride, i restauri di “Made in Hong Kong” di Fruit Chan e di “Cain and Abel” di Lino Brocka. E puntiamo già su alcuni potenziali vincitori, opere che faranno sicuramente breccia nel cuore della platea, seguendo le personalissime definizioni della schedule ufficiale: la transgender-family “Close-Knit”, lo zero-to-hero ice hockey drama “Run-Off”, il quirky father-son drama “Shed Skin Papa” e l’offbeat youth drama “Love and Other Cults”. La tribù del FEFF, insomma, è pronta di nuovo a ballare.

 

Filippo Zoratti

 

 

Cinema

39° Festival internazionale del cinema documentario: Cinéma du Réel 2017

 Cinéma du Réel 2017: il palmarès

Si è appena concluso a Parigi il 39° festiva internazionale  del film documentario che ha assegnato il il Grand Prix Cinéma du Réel al film Maman Colonelle di Dieudo Hamadi: il regista congolese, che nel 2014 ricevette il Premio Potemkine con Examen d’État.

Maman Colonelle ha per protagonista un colonnello di polizia donna, Honorine Munyole, che, usando il suo piccolo ufficio, sta aiutando le donne a denunciare le volenze subite. Honorine è a capo della brigata contro le violenze sessuali e per la protezione dell’infanzia di Bukavu.

La sezione riservata al cinema francese è stata vinta da Derniers jours à Shibati di Hendrick Dusollier, che ha seguito per due anni la scomparsa dell’ultimo quartiere storico di Chongqing, la più grande città della Cina. Dusollier filma, in tre diversi momenti ciascuno distante sei mesi dal precedente, la rapida sparizione dello slum realizzato attraverso dei traslochi forzati dei suoi abitanti.

Una menzione speciale è andata a Chaque mur est une porte di Elitza Gueorguieva (nata a Sofia e che lavora a Parigi da una quindicina d’anni), che documenta la transizione democratica della Bulgaria dal 1989 al 1991. la giovane regista si serve del proprio archivio famigliare di registrazioni in VHS datate 1989-1992 per raccontare il lavoro della madre, giornalista della tv di stato bulgara, e attraverso di lei la cosiddetta “transizione democratica” del suo paese.

 

PALMARES 2017

Grand Prix Cinéma du Réel
MAMAN COLONELLE di Dieudo Hamadi (Repubblica Democratica del Congo / Francia)

Prix International de la SCAM
NO INTENSO AGORA di João Moreira Salles (Brasile)

Prix Joris Ivens / Cnap

ON THE EDGE OF LIFE (ALA HAFET ALHAYAT) di Yaser Kassab (Siria)

Prix du Court Métrage
NYO VWETA NAFTA d’Ico Costa (Mozambico, Portogallo)
Mention Spéciale
ALAZEEF di Saif Alsaegh (USA)

Prix de l’Institut Français Louis Marcorelles

DERNIERS JOURS A SHIBATI di Hendrick Dusollier (Francia)
Mention Spéciale
CHAQUE MUR EST UNE PORTE di Elitza Gueorguieva (Francia)

Prix des Jeunes – Cinéma du Reel
DERNIERS JOURS A SHIBATI di Hendrick Dusollier (Francia)
Mention Spéciale
JE NE ME SOUVIENS DE RIEN di Diane Sara Bouzgarrou (Francia)
Prix des Bibliothèques
NO INTENSO AGORA di João Moreira Salles (Brasile)
Mention Spéciale
CHAQUE MUR EST UNE PORTE d’Elitza Gueorguieva (France)

Prix du Patrimoine de l’Immatériel
BOLI BANA di Simon Coulibaly Gillard (Belgio)
Mention Spéciale

HAMLET EN PALESTINE di Nicolas Klotz e Thomas Ostermeier (Francia, Germania)

Prix de la Musique Originale
Rodrigo Leão per NO INTENSO AGORA de João Moreira Salles (Brasile)

Prix des détenus du Centre Pénitentiaire de Bois d’Arcy

THROUGH THE LOOKING GLASS di Yi Cui (Cina)
Mention Spéciale
NOW HE’S OUT IN PUBLIC AND EVERYONE CAN SEE di Nathalie Bookchin (USA)

 

Cinema videomaker

54. Vienna International Film Festival – Viennale 2016

Del meglio del nostro meglio: 5 colpi di fulmine

di Filippo Zoratti

1) “The Happiest Day in the Life of Olli Mäki”, Finlandia 2016, di Juho Kuosmanen
A fare la storia sono davvero i vincitori? “The Happiest Day in the Life of Olli Mäki” – vincitore a sorpresa dell’Un Certain Regard a Cannes 2016 – narra di un gentile e innamorato perdente, che si caccia in una scommessa più grande di lui. Seguendo la tragicomica avventura di un panettiere di Kokkola, suo malgrado pugile e campione d’Europa nella categoria dilettanti che nel 1962 ha la chance di combattere per il titolo dei pesi piuma, Kuosmanen disegna una commedia umana che ricorda i microcosmi disincantati e grotteschi di Aki Kaurismaki. Tutto ciò che circonda il protagonista è anomalo, trasognato, ai confini del nonsense, perché filtrato dal suo punto di vista. La regia sobria ed elegante smonta qualunque afflato epico e competitivo: nelle sessioni di allenamento (così come nel fulmineo incontro per il titolo) non c’è climax, il ritmo è tutto concentrato sulla quotidianità di Olli e sulla sua surreale vita. “Olli Mäki” è la proposta della Finlandia ai prossimi Oscar, in lizza per il Miglior Film Straniero. E se questa favola, pervicacemente opposta all’american dream, facesse breccia nei cuori della giuria?

2) “Daft Punk Unchained”, Francia/Gran Bretagna 2015, di Hervé Martin-Delpierre
“Una cricca di giovani teppisti”. La storia dei Daft Punk inizia così, con una poco lungimirante recensione che il gruppo formato da Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter trasformerà – come loro solito – in oro. Dal 1993 quello dei Daft Punk diventa un marchio indelebile della musica elettronica. “Daft Punk Unchained” è un film alla ricerca di una aneddottica credibile, che renda plausibile l’incontro fra mito e realtà: dai ricordi di Michel Gondry, che sostiene che la nascita degli imprescindibili caschi derivi dalla realizzazione del video di “Around the World”, alla testimonianza di Nile Rodgers, che strimpellando alcune note alla chitarra ha gettato casualmente le basi per “Get Lucky”. Ma quello di Martin-Delpierre è anche un film di interventi e testimonianze, spesso acute (Pete Tong, Pharrell Williams e Giorgio Moroder su tutti). Considerando che i due componenti della band fanno l’impossibile per alimentare l’alone di leggenda attorno al loro lavoro, a “Daft Punk Unchained” non si può chiedere troppo, e in fondo ne siamo felici: buona parte dell’enigma risiede nello spirito ludico della coppia. I robot devono rimanere robot, e noi dobbiamo accettare le regole del gioco.

3) “El castillo de la pureza”, Messico 1972/1973, di Arturo Ripstein
Gabriel Lima, padre austero e bipolare, è determinato a salvare la propria famiglia dai mali del mondo nell’unico modo che gli sembra plausibile: rinchiudendoli fra le quattro mura della magione di sua proprietà. Lui è l’unico a poter uscire, mentre i tre figli e la moglie possono muoversi solo da una stanza all’altra del “castello”, all’occorrenza puniti per un tempo deciso dal loro dio/aguzzino. Se vi sembra di aver già sentito questa trama… bé, è così: “El castillo de la pureza” ha ispirato i titoli più rappresentativi della New Weird Wave greca, “Dogtooth” di Yorgos Lanthimos e “Miss Violence” di Alexandros Avranas (che, tuttavia, hanno sempre negato). Al netto di alcune significative differenze e di una diversa metaforizzazione, la grottesca conclusione è la medesima: quella del sonno della ragione che genera mostri, nell’ironica creazione di un inferno domestico di un uomo che vuole salvare i suoi cari dall’inferno del mondo esterno. Anche se ora guarderemo con occhi più scettici la natura derivativa di un’onda greca che ci era parsa orginale, inedita, genuina. E che invece era già stata raccontata (meglio) quasi quarant’anni prima.

4) “Homo Sapiens”, Austria 2016, di Nikolaus Geyrhalter
Tra i film che hanno fatto più discutere l’ultima Berlinale (purtroppo non in concorso ma nella sezione collaterale Forum), “Homo Sapiens” è una successione di immagini che potrebbero essere state prese da un film di fantascienza ambientato sul pianeta Terra dopo l’apocalisse. E invece il protagonista è il mondo devastato di oggi, o meglio è l’uomo e la scellerata distruzione di cui è inopinatamente capace. Palazzi abbandonati, cinema, scuole, prigioni, parchi divertimento: al centro della cinepresa di Geyrhalter c’è l’abuso che l’homo sapiens – appunto – impone alla natura, senza dialoghi e movimenti di macchina. Una serie impietosa di tableaux vivants dal terribile impatto visivo, ai quali non è necessaria alcuna introduzione. Un prodotto poetico che dimostra come, oltre al sempre ottimo Ulrich Seidl e al suo spaventoso cinema voyeuristico, la cinematografia austriaca sia viva e lotti insieme a noi. E lo stesso discorso vale per l’introspettivo e minimale “Kater”, thriller dell’anima e punta di diamante della Viennale 2016. Ci saremmo aspettati che uno dei due fosse il candidato austriaco ai prossimi Oscar; e invece la scelta è caduta sul forse più internazionale (ma altrettanto trascurabile) “Stefan Zweig, Farewell to Europe”.

5) “La larga noche de Francisco Sanctis”, Argentina 2016, di A. Testa e F. Marquez
Nel corso dei 78 tesissimi minuti di “La larga noche de Francisco Sanctis” non succede nulla, o quasi. Quella del protagonista è una notte da incubo perché, durante gli anni della dittatura militare argentina che va dal 1976 al 1983, finisce suo malgrado in possesso di informazioni sovversive e segrete su di una giovane coppia “desaparecida”. Francisco convive con la dittatura, pur ovviamente non amandola, ma a quel punto dovrà necessariamente fare i conti con la possibile disintegrazione della sua anonima ma sicura vita da impiegato con moglie e figli. Il personaggio non ci viene introdotto, quanto e se credere all’estraneità di Francisco lo dobbiamo decidere noi; di sicuro siamo partecipi della sua notte vagabonda per le strade di Buenos Aires, a caccia di qualcuno a cui “scaricare” la patata bollente per poter infine finalmente tornare a casa. Ma se la sua ricerca avrà successo non è dato sapere: il film – tratto da un romanzo di Humberto Costantini – si ferma magistralmente all’apice del climax, lasciandoci sospesi in un’atmosfera di soffocamento quasi insostenibile, e quasi certi che la rabbiosa frustrazione dell’impaurito Sanctis sia sul punto di esplodere.

Filippo Zoratti

Cinema

54. Vienna International Film Festival – Viennale 2016

Il cinema della verità, la verità del cinema

di Filippo Zoratti

Idealmente introdotta dal – non irresistibile – trailer del festival “Cinéma Vérité” diretto da Klaus Wyborny (regista d’avanguardia tanto conosciuto e apprezzato in Germania e Austria quanto carneade nel resto d’Europa) la sezione dedicata ai documentari è stata la più efficace a delineare solidi percorsi di senso e contenuto, all’interno del ricco paniere di programmi speciali, focus e retrospettive proposto come ogni anno dalla Viennale. È nel discusso “Homo Sapiens” di Nikolaus Geyrhalter che possiamo forse individuare l’ariete da sfondamento del gruppo (sono ben 70 le pellicole proiettate), successione di immagini che potrebbero essere state prese da un film di fantascienza ambientato sul pianeta Terra dopo l’apocalisse. E invece il protagonista è il mondo devastato di oggi, o meglio è l’uomo e la scellerata distruzione di cui è inopinatamente capace. Palazzi abbandonati, cinema, scuole, prigioni, parchi divertimento: al centro della cinepresa di Geyrhalter c’è l’abuso che l’homo sapiens – appunto – impone alla natura, senza dialoghi e movimenti di macchina. Una serie impietosa di tableaux vivants dal terribile impatto visivo, ai quali non è necessaria alcuna introduzione. Una presa di coscienza che è anche un monito, e questo ci sembra uno dei fil rouge più evidenti della selezione, attraversato da altri “incubi” di differente collocazione geografica ma portatori del medesimo messaggio: come “Eldorado XXI”, che racconta le condizioni di vita dei lavoratori di una miniera d’oro nel sud-est del Perù; o come “Furusato”, amara ricognizione di ciò che è rimasto a Fukushima dopo il disastro – terremoto più tsunami – che ha portato a quattro devastanti esplosioni nella centrale nucleare omonima. Da un lato il cammino di auto-distruzione degli esseri umani, stravolti dall’illusione dell’arricchimento a scapito di un ambiente sfruttato senza soluzione di continuità; dall’altro una riflessione sui pro e i contro della corsa al progresso, spesso più importante dei rischi e dei sacrifici legati ad essa. E al centro l’uomo, incapace di controllare se stesso e di ragionare sulle conseguenze delle proprie azioni. Dall’universale al particolare, il “cinema della verità” può essere declinato anche attraverso le istanze del biopic, dell’istantanea biografica e celebrativa di personaggi che a modo loro hanno fatto la storia o hanno contribuito a renderla migliore. Personalità riconosciute all’unanimità o destinate a lavorare sottotraccia, e quindi per questo persino più interessanti: se Joao Botelho fotografa l’arte di Manoel de Oliveira con “The Cinema, Manoel de Oliveira and me”, Salomé Jashi riprende in “The Dazzling Light of Sunset” le avventure dei giornalisti georgiani Dariko e Kakha, uniche fonti d’informazione nella remota città di Tsalenjikha; se Hervé Martin-Delpierre ricostruisce la mitologica carriera dei Daft Punk in “Daft Punk Unchained”, Maya Abdul-Malak (“Des hommes debout”) omaggia l’anonimo proprietario di un call shop a Parigi, piccola patria per gli immigrati mediorientali che grazie alle tre cabine telefoniche del locale possono chiamare i loro lontani familiari. Le visioni non filtrate del documentario ci condannano, palesando con l’inconfutabilità della ripresa “reale” la nostra limitatezza; ma al contempo ci salvano, ricordandoci quanto e cosa siamo capaci di costruire artisticamente e umanamente. Ancora una volta ci chiediamo (magari di fronte all’”Austerlitz” di Sergei Loznitsa): esiste testimonianza migliore della verità offerta dal cinema?

Filippo Zoratti