Far East Film Festival 19 – FEFF 2017

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Prima parte: Una tribù che balla

di Filippo Zoratti
 

Secondo il calendario cinese, il 2017 è l’anno del Gallo. Un’annata dedicata alle persone coraggiose, elastiche, tenaci. Caratteristiche proprie anche del Far East Film Festival, che come di consueto cavalca l’onda dell’appoggio e della familiarità col proprio pubblico, muovendosi – serio e faceto – tra l’affermazione “istituzionale” di sé (perché per dar vita a tutto, nel 1998, c’è voluta una buona dose di incoscienza e audacia) e l’eterno gioco con i fareasters, gli amanti dell’evento a tutto tondo (ovvero

Survival Family

Survival Family

indipendentemente dalla qualità dei film della selezione). Se di gallo si parla dunque, si parla anche di “piume” (il gadget scelto per questa edizione) da appuntare come spille e a mò di tratto distintivo. Quella del FEFF è una tribù che balla, che si riconosce e che continua a seguire una manifestazione ormai radicata nel territorio friulano ed italiano “accettando il mistero”. Dopo 19 anni la superficie è appena scalfita: si riconoscono autori e correnti, si forma e si trasforma il gusto degli spettatori; ma al contempo ci si affaccia alla maggior parte delle proposte

I Am Not Madame Bovary

I Am Not Madame Bovary

ancora senza sapere a cosa si stia per assistere, accettando anche (enorme atto di fede della tribù) l’inevitabile scotto della promessa non mantenuta o della profonda delusione. Amare il Far East significa farlo “a scatola chiusa”: nessun festival nazionale sviluppa un’empatia così forte, ed è questo il vero patrimonio da tramandare di anno in anno, la vera forza della manifestazione. Il cinema diventa così, nelle parole degli organizzatori Sabrina Baracetti e Thomas Bertacche, un “antidoto al buio”: il buio delle coscienze intorpidite, il buio della rinuncia alla cultura, il buio della crisi (economica e di valori). Al Teatro Nuovo di Udine ogni anno si riunisce una festosa famiglia che vive e sopravvive nonostante tutto, e il gancio è presto fatto: ad aprire Far East 19 ci pensa il giapponese “Survival Family”, incentrato su un nucleo familiare che affronta la quotidianità dopo un improvviso e imprevedibile blackout mondiale. Una scelta chiara,

Love off the Cuff

Love off the Cuff

persino politica, cui fa da controcanto il ritorno dei tanti amici conosciuti in questi quattro lustri: Pang Ho-cheung con “Love off the Cuff”, Yamashita Nobuhiro con “My Uncle” e “Over the Fence”, Feng Xiaogang (lo Steven Spielberg cinese, a cui verrà conferito il Gelso d’Oro alla carriera) con “I Am Not Madame Bovary”, Erik Matti con “Seclusion”, Herman Yau con “The Sleep Curse” e “Shock Wave”. Come sempre, è impossibile tracciare un percorso univoco e, anzi, è altamente sconsigliabile: nella miriade di sollecitazioni peschiamo ancora a caso il primo film proveniente dal Laos (“Dearest Sister)”, l’evento “Die Beautiful” in collaborazione con l’FVG Pride, i restauri di “Made in Hong Kong” di Fruit Chan e di “Cain and Abel” di Lino Brocka. E puntiamo già su alcuni potenziali vincitori, opere che faranno sicuramente breccia nel cuore della platea, seguendo le personalissime definizioni della schedule ufficiale: la transgender-family “Close-Knit”, lo zero-to-hero ice hockey drama “Run-Off”, il quirky father-son drama “Shed Skin Papa” e l’offbeat youth drama “Love and Other Cults”. La tribù del FEFF, insomma, è pronta di nuovo a ballare.

 

Filippo Zoratti

 

 

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