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Cinema

73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia

Nei panni della giuria: favoriti e pronostici

di Filippo Zoratti
 

Sulla carta, il carnet della 73. Mostra del Cinema di Venezia è parso fin da subito uno dei migliori degli ultimi anni. Il confine fra opera d’arte e paccottiglia di seconda mano è però ovviamente labile, soprattutto quando sono così tanti i nomi di rilievo presenti fra concorso e non. La partenza è stata folgorante: l’apertura del trasognato musical “La La Land” ha riportato subito alla mente “Birdman”, ignorato dalla giuria nel 2014 e poi asso pigliatutto agli Oscar. Una storia – quella del film e del suo giovane autore Damien Chazelle, già regista del piccolo cult “Whiplash” – che sembra già scritta, così come all’opposto era già segnato il destino di “Les Beaux Jours d’Aranjuez”: ancor prima della presentazione ufficiale l’opera di Wim Wenders è stata bollata come fallimentare, scarto d’autore di un cineasta da sempre affezionato al festival veneziano. Scorrendo i titoli, balza subito all’occhio quella che è stata la tendenza dell’edizione 73, ovvero la volontà di cavalcare l’onda “sudamericana” dell’anno scorso (con i già vagamente rimossi Leoni d’Oro e d’Argento rispettivamente al venezuelano “Ti guardo” e all’argentino “Il clan”), con risultati altalenanti e discontinui fra Cile, Argentina e – per estensione – Messico: se da un lato la variegata platea del Lido ha potuto ammirare l’ultimo lavoro del prolifico Pablo Larrain (“Jackie”, con una Natalie Portman in odore di Coppa Volpi), dall’altro sia “El ciudadano ilustre” che “El Cristo ciego” sono sembrati carne da macello finita un po’ per caso nella competizione ufficiale. Fino al caso più eclatante, “La region salvaje” di Amat Escalante, sulla cui presenza – non solo in gara, ma alla Mostra stessa – si è alzato più di un ragionevole dubbio. Perché, ad esempio, inserire operazioni così sbilenche e abborracciate quando nelle sezioni collaterali sono stati relegati autori consolidati in gran spolvero come Ulrich Seidl (“Safari”), il ritrovato Kim Ki-duk (“The Net”) e Amir Naderi (“Monte”)? Forse per non lasciare sguarnito il fuori concorso e il neonato “Cinema nel Giardino” – mentre gli “Orizzonti” continuano quasi per definizione ad essere terreni deputati alla sperimentazione e al lancio di nuovi registi. Ma d’altro canto i “carichi pesanti” della gara non sempre hanno convinto, primo fra tutti Terrence Malick, che col suo “Voyage of Time” sembra continuare ad inseguire demoni troppo personali per ricevere un riscontro pubblico e critico (non è un caso che le sue ultime pellicole non trovino più ormai distribuzione). Lo stessa caratteristica del redivivo Emir Kusturica e del suo “On the Milky Way”, ok, ma è un discorso diverso: per l’autore serbo è un ritorno alla cinepresa dopo 8 anni di assenza, e soprattutto dopo un congedo anomalo rispetto alla sua filmografia come “Maradona”. Stringendo il cerchio, il favore del pronostico a chi va quindi? Forse all’italiano “Spira mirabilis” (anche se sembra improbabile che la vittoria possa andare ad un altro documentario made in Italy a così breve distanza da “Sacro GRA”), forse al “Paradise” del russo Konchalovsky (già Leone d’Argento due anni fa con “The Postman’s White Nights”), forse al solido melò francese in costume “Une vie”. Una scelta, quest’ultima, che potrebbe mettere d’accordo l’eterogenea commissione composta fra gli altri da Sam “American Beauty” Mendes, Laurie Anderson, Lorenzo Vigas e Joshua Oppenheimer. Eppure le giurie sono da sempre imprevedibili, e siamo pronti, per l’ennesima volta, a restare stupiti – nel bene e nel male – dal verdetto finale.

 

Filippo Zoratti