71° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica Venezia 2014

Prima puntata: A caccia della Mostra

di Filippo Zoratti

Uno dei passatempi preferiti dei cacciatori di frodo festivalieri – critici, pubblico, addetti ai lavori e maestranze varie – è il temibile tiro alla Mostra. Una pratica sanguinaria che si svolge sul finire dell’estate, e che sostanzialmente ogni anno si svolge nella medesima bieca successione di eventi: dopo un periodo di relativa quiete di quasi un anno, l’ignara vittima – che per comodità chiameremo “Direttore Artistico” – esce allo scoperto e inizia la propria inesorabile migrazione verso il Lido di Venezia, luogo deputato di una brevissima stagione degli amori della durata di 12 giorni. Lo stoico esemplare di Direttore riuscirà a portare a compimento la propria missione, ma non prima di essere stato debitamente scannato e spolpato vivo dai sopraccitati predatori, a suon di accuse e giudizi sommari, di feroci reprimende e spericolate dichiarazioni di fallimento “a scatola chiusa”. Il poco amante della polemica Alberto Barbera il gioco lo conosce ormai da tre anni, ma continua a non farsene una ragione. La sua più grande colpa è quella di amare la politica del basso profilo, che lo rende invisibile e “umano” (leggi: poco carismatico, per i detrattori), strenuo difensore della semplificazione di forme e contenuti e ben consapevole che il cinema è anzitutto ricerca e analisi artistica. Salutato dai più come un traghettatore, un riempitivo necessario fra il fu Marco Muller (ora al discutibile e confuso Festival Internazionale del Film di Roma) e chissà chi, Barbera ha moderatamente iniziato a cambiare i connotati della Mostra di Venezia, rendendola sempre meno passerella e sempre più luogo di novità e “reali”, tangibili aggiornamenti della Settima Arte. Un merito che corrisponde in verità ad una ovvia presa di coscienza, un coerente adattamento alla situazione che le kermesse internazionali tutte stanno vivendo. Data per appurata la polemica di default, Barbera se n’è giustamente fregato, dapprima scegliendo come Presidente di giuria il compositore Alexandre Desplat al posto di un cineasta tout court (sacrilegio!) e poi aprendo le porte ad un programma sghembo e di difficile interpretazione. Il Concorso ad esempio conta addirittura quattro opere francesi (“La rançon de la gloire”, “Le dernier coup de marteau”, “3 coeurs”, “Loin des hommes”), altrettanti film americani (“Manglehorn”, “Good Kill”, “99 Homes”, “Birdman”), tre italiani d’autore (“Hungry Hearts”, “Il giovane favoloso” e “Anime nere”) e un bel po’ di emeriti sconosciuti; riapre al documentario (“The Look of Silence”, ideale seguito o quasi di “The Act of Killing”), lancia la bomba a mano Pasolini e grida al miracolo con il turco “Sivas” dell’esordiente Mujdeci. Paccottiglia o selezione di alto livello? Barbera la conosce la risposta: “il concorso è inevitabile, ma accessorio. Fosse possibile bisognerebbe abolirlo” (anatema!). Anche perché così facendo si perde di vista tutto il resto della proposta, dai Fuori Concorso agli Orizzonti, dalla sperimentazione della Biennale College ai Classici restaurati. Occorre dare alla Mostra la possibilità di “mostrarsi”, di farsi capire. Basterebbe solo non impallinarla alla prima occasione, per appenderla come un ennesimo trofeo di caccia.

Filippo Zoratti

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