72. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica – Venezia 2015

Prima Puntata: Scalando l’Everest (delle critiche)

di Filippo Zoratti
 

Dovessimo seguire i “suggerimenti” di Alberto Barbera, con la 72. Mostra del Cinema di Venezia saremmo di fronte ad una selezione destinata ad accontentare tutti, dal pubblico festivaliero tout court ai fruitori occasionali o più amanti del mainstream. Questa affermazione – desunta da un’intervista rilasciata nei giorni precedenti all’avvio – contiene un fondamento di verità: questo è l’anno del rilancio glam, della riaffermazione di una caratteristica spesso scippata al Lido da altre kermesse maggiormente “di tendenza”. Lo si capisce dal numero fittissimo di star da red carpet, di nomi di richiamo soprattutto per i giovani fan desiderosi di attendere giornate intere pur di avere l’autografo o il selfie con il proprio beniamino. Se è vero che – come diceva Walt Whitman – l’essere umano e le opere del suo ingegno sono per forza di cose destinate a contenere moltitudini, mai come in questa edizione numero 72 si avverte la sensazione di una selezione divisa a compartimenti stagni fra le sue sezioni, a tratti persino schizofrenica. Il tiro al bersaglio nei confronti della Mostra è da sempre uno degli sport preferiti degli addetti ai lavori presenti alla manifestazione, ma chi si è fin da subito scagliato contro la mediocrità del film di apertura “Everest” (mediocrità relativa, si tratta pur sempre di un blockbuster a cui ben poco si può chiedere dal punto di vista qualitativo) si è giocato il jolly della stroncatura troppo presto, forse ingannato dalla nobile scelta di mettere in pre-apertura i restauri di Orson Welles. Per il Concorso e il Fuori Concorso, almeno a giudicare da questi primi cinque giorni, sembra non esserci ormai più speranza: sono territori destinati alla facciata, al richiamo dei lanci ansa e degli strilli di copertina. Emblematico il caso di “Equals”, bigino fantascientifico impresentabile utile solo per la presenza appunto di superficiale interesse dei piccoli divi Kristen Stewart e Nicholas Hoult. Film privo di qualunque innovazione, votato al target degli adolescenti da multisala del sabato sera: eppure film regolarmente in gara per il Leone d’Oro, così come lo è “The Danish Girl” di Tom “discorso del re” Hooper, probabilmente votato al saccheggio dei prossimi Oscar in virtù della presenza del lanciatissimo Eddie Redmayne e di una tematica socio-culturale inattaccabile (la storia vera della prima persona transessuale a cambiare chirurgicamente sesso, nel 1930). Fossero eventi collaterali o extra non faremmo una piega, e infatti non la facciamo dinnanzi al convenzionale Black Mass di Johnny Depp. Ma così l’attenzione mediatica passa tutta attraverso operazioni commerciali trascurabili, mentre (non siamo i primi a dirlo) altrove ci sarebbero cinematografie tutte da scoprire: come già accaduto in passato, la sezione Orizzonti sembra il nuovo e “reale” concorso, quella che segnala – nel bene e nel male – le tendenze del cinema presente e futuro. La scarsa considerazione che hanno ricevuto l’israeliano “Mountain”, il danese “A War” e l’iraniano “Wednesday, May 9” dovrebbe far riflettere, mentre si comprende perfettamente che la presenza nella selezione ufficiale di alcuni grandi maestri come Sokurov, Gitai e Skolimowski è quasi un tributo necessario per ridare spessore e per ristabilire i toni “qualitativi” dell’evento, che paradossalmente stona con l’andazzo generale: la “Francofonia” del sopraccitato Sokurov ad esempio risulta quasi un oggetto alieno indefinibile, come fosse lui fuori contesto invece di tutto il resto. Impossibile fino a questo momento non definire il percorso di Venezia 72 che in un modo: accidentato, dissociato. Ovvero il rovescio della medaglia luccicante mostrata in tempi non sospetti dalla Biennale, quando si parlava di una Mostra imprevedibile ed eccentrica. Per il momento della totalità di sguardo auspicata allora non c’è traccia, ma vale la pena concedere il beneficio del dubbio: c’è ancora molto da dire e molto da vedere.

Filippo Zoratti

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