70. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica – Venezia 2013


Prima Puntata: il Festival ai tempi della crisi

di Filippo Zoratti

Chissà dove ci vuole portare Alberto Barbera. Quella che l’anno scorso era parsa ai più come una scelta “attendista” e di passaggio per il dopo Muller, ha assunto via via dei contorni più definiti e marcati. L’identità e l’impronta del nuovo Direttore ci sono, iniziano a farsi sentire forti e chiare. Barbera non è una sprovveduta vittima sacrificale finita centrifugata nella crisi economica e culturale degli anni Duemila; Barbera la cavalca con disinvoltura, la crisi. Lo si capisce – prima ancora che dalle sue interviste e dagli interventi fatti in queste settimane – dall’impianto deciso per il “suo” festival: meno film in rassegna anzitutto, una scelta ampiamente controcorrente rispetto alla bulimia della gestione precedente; una conseguente maggiore attenzione ai percorsi autoriali, ai recuperi (quella sezione Venezia Classici che da ultimo ripiego spesso diventa rifugio e riscoperta per i cinefili presenti al Lido); l’imposizione – qualcuno dirà “forzata” – di un basso profilo persino nelle strutture e nelle architetture, con accessi meno restrittivi ed elitari. Si potrebbe anche far finta di niente, per carità; ma sarebbe persino ottuso non accorgersi che oggi a dominare lo scenario internazionale sono Cannes e Toronto. Questo non significa che agli altri vadano gli scarti, anzi: agli altri va la ricerca di nuovi stimoli, di una qualità che spesso “dovrebbe” essere insita nel dna delle kermesse festivaliere ma di cui spesso non v’è traccia. Insomma, in poche parole ci vogliono coraggio e lungimiranza per stare a galla, per gettare il cuore oltre l’ostacolo. Decidere che il film di apertura possa essere Gravity, ad esempio, è un clamoroso gesto di coraggio. Il nuovo film di Alfonso Cuaròn con protagonisti George Clooney ma soprattutto Sandra Bullock è un nuovo punto di approdo e (ri)partenza per la fantascienza, un prototipo cui in futuro si dovrà fare riferimento per il genere. Gravity è “sense of wonder”, spettacolo mozzafiato ed esistenziale con un uso della stereoscopia mai visto prima. Iniziare con un prodotto di questo tipo – che pur gioca amabilmente con il mainstream senza esserne vittima – significa aver capito “dove tira il vento”, cosa è e cosa in pochissimi anni sarà il cinema dopo il Big Bang digitale. Il futuro è oltre la sala, e Barbera scoperchia il vaso di Pandora per mostrarci le sue nuove e straordinarie potenzialità. Ma il futuro porta anche al documentario, spesso associato – chissà perché – ad un’idea polverosa ed antica di fruizione cinematografica. A memoria non si ricorda un’edizione così piena di opere non di finzione, su tutti i lavori in Concorso di Morris e Rosi (rispettivamente The Unknown Known e Sacro GRA). Basta davvero capire che siamo in un’epoca confusa, ma che questo non significa che il bicchiere debba necessariamente essere mezzo vuoto. E’ così che, nell’eterna diatriba sul senso dei festival, le rassegne smettono di essere vetrine promozionali e si trasformano in campo d’esplorazione. E’ lo stesso Barbera ad affermarlo con decisione, consigliando durante la Mostra “un percorso a zig zag, che attraversi in diagonale tutte le direzioni”. Perdendo qualcosa per strada, potremmo stupirci di nuovi percorsi. Questa è la gestione Barbera, questo il suo modo di intendere i Festival al tempo della crisi. Nell’attesa di capire se Venezia tornerà ad incidere come un tempo sull’industria cinematografica (ovvero ad avere un peso sugli incassi prossimi venturi, come puntualmente sottolinea Roy Menarini in un suo articolo per la rivista on line Mediacritica) tutto questo ci sembra un ottimo inizio. La difesa è – e sempre sarà – l’attacco. E noi tifiamo apertamente per il Direttore Barbera.

Filippo Zoratti

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