
Terza Puntata: Anatomia di un Palmarès
di Filippo ZorattiMettiamola così: solo il tempo – forse – saprà dirci se il trionfo dell’America Latina alla 72a Mostra del Cinema di Venezia sia stata una scelta lungimirante o scandalosa. Solo il tempo, e una riflessione a mente fredda, potrà dare senso ad un colpo di teatro che di primo acchito è parso a tutti straordinariamente folle e fuori misura. Il direttore Barbera, ad inizio festival, lo aveva anche annunciato: le vere sorprese della selezione sarebbero state le opere provenienti dal Sudamerica, in quanto artefici del cinema più interessante in circolazione. È vero, ma mai avremmo neanche lontanamente sospettato che un presidente di giuria messicano (l’Alfonso Cuarón di “Gravity”) potesse piazzare ai posti più alti del podio una pellicola venezuelana e una argentina. Due lavori – “Desde allá” di Lorenzo Vigas e “El Clan” di Pablo Trapero – che al momento è davvero difficile giudicare per il loro reale valore, estrapolandoli cioè dal contesto in cui sono emersi.
Il pubblico festivaliero (giornalisti, addetti ai lavori, studenti di cinema e appassionati) che ha gridato al golpe ha però la memoria breve, perché la storia della Mostra è costellata di campanilismi: senza allontanarci troppo basti pensare a Zhang Yimou che nel 2007 premia “Lussuria – Seduzione e tradimento” di Ang Lee, a Quentin Tarantino che nel 2009 impone “Somewhere” della sua ex compagna Sofia Coppola e a Bernardo Bertolucci che nel 2013 incensa il documentario “Sacro GRA” di Gianfranco Rosi. Tutti i pronostici dovrebbero tenere conto che a sentenziare sui film in gara non è un gruppo di esseri umani angelicamente super partes (che non esiste), ma un manipolo di professionisti emotivamente o amichevolmente coinvolti. Il mosaico del palmarès veneziano sembra oltretutto composto da altri passaggi obbligati, che a volte muta nel corso degli anni – l’era Müller con il suo codazzo di Leoni asiatici – e altre volte permane granitico con lo scorrere dei lustri: se la selezione dei film italiani ad esempio è di bassa o controversa qualità, inevitabilmente una gratifica arriverà da un premio collaterale (in particolar modo dalle Coppe Volpi, fermo restando che il riconoscimento di quest’anno a Valeria Golino per “Per amor vostro” è inattaccabile); se in concorso ci sono grandi cineasti ancora orfani di Orsi, Palme o felinidi nelle loro bacheche, è altamente probabile che prima o poi verranno giustamente o meno risarciti. In questo caso vige quasi una logica di “prelazione”: il festival che per primo consacra il wannabe Maestro della Settima Arte sa che poi quell’autore sarà portato ad avere un occhio di riguardo verso la kermesse che lo ha imposto all’attenzione mondiale. A Venezia, nelle ultime edizioni, è successo così per Sokurov con “Faust”, per Kim Ki-duk con “Pietà”, per Roy Andersson con il suo “Piccione seduto su un ramo”. E abbiamo logicamente pensato che potesse accadere lo stesso anche stavolta, consci della qualità di opere quali “Rabin, the Last Day” di Amos Gitai e “11 Minutes” di Jerzy Skolimovski. Ci siamo totalmente sbagliati o, meglio, la giuria ha stupito tutti, incoronando una insospettabile opera prima e un solido thriller tratto da una storia vera. Non è dato sapere – come dicevamo prima – se si tratti di colpo di genio o di vergognoso tonfo, ma per ora ci si potrebbe accontentare di una vaga speranza: a dispetto della regola che vuole i premiati della Mostra putualmente ignorati dal pubblico in sala, il trio “Desde allá” – “El Clan” – “Anomalisa” (Gran Premio della Giuria) potrebbe segnare una clamorosa inversione di tendenza. Offrendo nuovo credito ad una delle classifiche più odiate degli ultimi anni.
Filippo Zoratti



giocato il jolly della stroncatura troppo presto, forse ingannato dalla nobile scelta di mettere in pre-apertura i restauri di Orson Welles. Per il Concorso e il Fuori Concorso, almeno a giudicare da questi primi cinque giorni, sembra non esserci ormai più speranza: sono territori destinati alla facciata, al richiamo dei lanci ansa e degli strilli di copertina. Emblematico il caso di “Equals”, bigino fantascientifico impresentabile utile solo per la presenza appunto di superficiale interesse dei piccoli divi Kristen Stewart e Nicholas Hoult. Film privo di qualunque innovazione, votato al target degli adolescenti da multisala del sabato sera: eppure film regolarmente in gara per il Leone d’Oro, così come lo è “The Danish Girl” di Tom “discorso del re” Hooper, probabilmente votato al saccheggio dei prossimi Oscar in virtù della presenza del lanciatissimo Eddie Redmayne e di una tematica socio-culturale inattaccabile (la storia vera della prima persona transessuale a cambiare chirurgicamente sesso, nel 1930). Fossero eventi collaterali o extra non faremmo una piega, e infatti non la facciamo dinnanzi al convenzionale Black Mass di Johnny Depp. Ma così l’attenzione mediatica passa tutta attraverso operazioni commerciali trascurabili, mentre (non siamo i primi a dirlo) altrove ci sarebbero cinematografie tutte da scoprire: come già accaduto in passato, la sezione Orizzonti sembra il nuovo e “reale” concorso, quella che segnala – nel bene e nel male – le tendenze del cinema presente e futuro. La scarsa considerazione che hanno ricevuto l’israeliano “Mountain”, il danese “A War” e l’iraniano “Wednesday, May 9” dovrebbe far riflettere, mentre si comprende perfettamente che la presenza nella selezione ufficiale di alcuni grandi maestri come Sokurov, Gitai e Skolimowski è quasi un tributo necessario per ridare spessore e per ristabilire i toni “qualitativi” dell’evento, che paradossalmente stona con l’andazzo generale: la “Francofonia” del sopraccitato Sokurov ad esempio risulta quasi un oggetto alieno indefinibile, come fosse lui fuori contesto invece di tutto il resto. Impossibile fino a questo momento non definire il percorso di Venezia 72 che in un modo: accidentato, dissociato. Ovvero il rovescio della medaglia luccicante mostrata in tempi non sospetti dalla Biennale, quando si parlava di una Mostra imprevedibile ed eccentrica. Per il momento della totalità di sguardo auspicata allora non c’è traccia, ma vale la pena concedere il beneficio del dubbio: c’è ancora molto da dire e molto da vedere.
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